Viadotto di Fossano, ora i costruttori si rimpallano le responsabilità del crollo
Per i periti delle difese le infiorescenze sul ponte non erano un segnale d’allarme. E c’è chi avanza dubbi sulla qualità della boiacca: “C’era troppa acqua”“Gutta cavat lapidem” dicevano gli antichi romani: la goccia scava la pietra. Lo ripete una delle consulenti del processo che vede imputati dodici tecnici e operai per il crollo del viadotto “La Reale” di Fossano, avvenuto nell’aprile 2017 lungo la Statale 231.
Accusa e difese sono ormai concordi nell’attribuire la responsabilità del disastro alla boiacca, la miscela di cemento e calce che avrebbe dovuto trovarsi nei cavi di precompressione del ponte. Invece non ce n’era abbastanza, perlomeno nei conci dove i cavi si usurarono e, corrosi dall’acqua, finirono per cedere. Su circa un terzo della lunghezza degli otto cavi della campata la boiacca mancava del tutto, ha spiegato il perito della Procura che eseguì l’“autopsia” sul ponte crollato, l’ingegner Luca Giordano. È tutto lì, in sostanza: “I materiali corrispondevano agli standard, il calcestruzzo e gli acciai erano addirittura di qualità superiore” afferma il consulente dell’accusa. Inverosimile che qualcuno abbia “tirato a risparmiare”, perché il costo della boiacca - anche su questo concordano tutti i periti - era “trascurabile”. E se le iniezioni fossero state fatte a regola d’arte, sostiene l’accusa, non ci sarebbe stato nessun crollo, e nemmeno sarebbero comparse quelle colature bianche che si potevano vedere ad occhio nudo già prima del disastro - e che tuttavia non allertarono chi avrebbe dovuto controllare, Anas in testa.
Ma chi doveva far suonare l’allarme, ammesso che qualcuno potesse? Su questo le difese si rimpallano a vicenda le responsabilità: alla sbarra ci sono sei tecnici dell’Anas, presente a sua volta come parte civile, insieme ai dipendenti della Grassetto e della Ingegner Franco, ovvero le imprese che si occuparono rispettivamente della costruzione e della fornitura dei conci, i prefabbricati in cemento armato. E poi ancora i gestori dell’appalto per la manutenzione del 2006, ovvero i responsabili della ditta Pel.Car. L’accusa - disastro colposo - è comune. Per il resto ognuno cerca di dipanare a modo suo il groviglio di contestazioni che in alcuni casi riguardano l’imperizia nei lavori, in altri l’omessa vigilanza.
In tutto questo c’è chi sostiene che il problema della boiacca non fosse quantitativo, ma qualitativo: troppa acqua nella malta. Lo afferma l’ingegner Laura Piccinelli, consulente delle difese di Roger Rossi e Mauro Forni, tecnici della Franco: “È verosimile - sostiene Piccinelli - che le parti di acqua presenti nella boiacca fossero in quantità superiore rispetto al rapporto consentito dalla normativa. A causa della pendenza longitudinale della trave, per sedimentazione la parte di cemento si è concentrata verso i conci più bassi, rimanendo più ricca di acqua nel concio A, più in alto, dove si è verificata la corrosione”. In altre parole, il crollo si sarebbe verificato perché il cemento era scivolato in basso, lasciando gli altri cavi scoperti dopo l’evaporazione dell’acqua. Il problema quindi non sarebbe dipeso dagli errori nell’iniezione di boiacca, ma dalla sua qualità, dalla mancata impermeabilizzazione e dal fatto che negli anni si erano aggiunti strati di asfalto. A dimostrarlo sarebbero le tre “prove pioggia” che i periti avevano eseguito dopo il crollo, bagnando con due semplici irrigatori da giardino la pavimentazione stradale: dopo sole cinque ore, l’acqua si era accumulata anche all’interno del cassone. Le colature bianche, aggiunge il tecnico, erano emerse dal lato in cui i cavi erano intatti, non dove si stavano sfaldando: “Perché lì si sono concentrate le particelle di cemento, contenenti l’idrossido di calce. Quando l’idrossido è fuoriuscito si è trasformato in calcite, quella che dall’analisi si è rilevata essere la sostanza delle colature”.
Sul tema delle infiorescenze si è dilungato anche l’ingegner Maurizio Grassi, chiamato dalla difesa degli addetti Anas Valentino Pisani, Biagino Ciancio e Dario Cristian Ciminelli: quelle strisce bianche, spiega, non rientravano tra le alterazioni che la normativa dell’epoca considerava “degne di segnalazione”. Anche Grassi ha ricordato che il famigerato concio A, quello dove si è verificata la corrosione, era privo di segni visibili: “Quand’anche per eccesso di scrupolo, non previsto dalla circolare e dalla prassi, si fossero volute effettuare carotature in corrispondenza delle macchie, si sarebbero trovate guaine integre e iniettate”. C’è voluta la domanda provocatoria di un altro dei legali - “se trovasse quelle infiorescenze in casa sua, cosa farebbe?” - per smuovere le acque: “Andrei a cercarne la causa”, la risposta.
Il prossimo 19 marzo sono fissate le audizioni di altri consulenti delle difese, prima di ascoltare gli imputati che vorranno sottoporsi all’esame.
Andrea Cascioli
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