Mondovì, l’operatrice del centro di accoglienza denuncia il rifugiato per stalking
Il sudanese, titolare di protezione internazionale, è ora a processo: “Una notte mi chiamò 1500 volte. Diceva che voleva una figlia da me” racconta la donnaDoveva essere un semplice rapporto professionale, tra un’operatrice di una cooperativa attiva nell’accoglienza e un giovane extracomunitario che lei seguiva nel suo percorso di integrazione. Per due anni, in effetti, così è stato. Poi le cose hanno iniziato a prendere una piega diversa, secondo quanto raccontato dalla donna: tanto che a un certo punto il ragazzo ha cominciato a farle dichiarazioni d’amore insistenti, seguite da vere e proprie molestie, telefonate a tutte le ore e pedinamenti.
“Il culmine in una notte ad agosto, in cui ho ricevuto 1487 chiamate” ha ricordato davanti al giudice l’operatrice, dipendente del consorzio La Valdocco a Mondovì: lei, per giunta, aveva l’obbligo di reperibilità continua e non poteva staccare il telefono. È finito tutto agli atti dopo la denuncia per stalking che la donna, esasperata, ha presentato nella primavera dello scorso anno: ora A.E., cittadino sudanese, titolare di un permesso di soggiorno per protezione internazionale, è sotto processo. Nei suoi confronti è stato emesso un divieto di dimora esteso all’intera provincia di Cuneo.
“Per due anni il nostro è stato un rapporto normale, sebbene lui avesse problemi di convivenza con gli altri ospiti” ha spiegato in aula l’autrice della denuncia, chiamata a seguire A.E. in modo continuativo. L’africano all’epoca faceva parte del progetto Siproimi (l’ex Sprar, attuale Sai) e svolgeva un tirocinio presso un bar cittadino. Sembrava insomma che le cose stessero andando per il meglio. A maggio del 2021, però, erano iniziati i problemi: “Mi inviava messaggi non inerenti alle questioni di lavoro, poi è diventato sempre più invadente nei confronti della mia sfera personale”. A quel tempo l’immigrato stava cercando di ottenere il ricongiungimento con la propria moglie dal Sudan, ma quella morbosa infatuazione aveva avuto la meglio su tutto: “Diceva che era intenzionato a sposarmi e nel caso avrebbe lasciato sua moglie. È arrivato a chiedermi di mettere al mondo una figlia per lui, di cui aveva perfino già immaginato il nome”.
Inutili i tentativi di ristabilire le giuste distanze, i blocchi alle varie utenze telefoniche con cui A.E. continuava a chiamare, perfino i trasferimenti temporanei verso un altro centro. “Abbiamo cercato di farlo incontrare con uno psichiatra perché venisse valutato un ricovero ma ha rifiutato” ha aggiunto l’operatrice. Oltre ai messaggi di natura sessuale, in due diverse occasioni la donna aveva dovuto subire contatti fisici non voluti: in un’occasione, ha detto, A.E. le aveva accarezzato la coscia mentre camminava sulle scale in ufficio, pochi giorni dopo l’aveva afferrata per un braccio appena uscita dall’ascensore. “In alcune occasioni mi ha pedinata col monopattino. Cercavo di non uscire da sola - ha riferito - e di non frequentare i luoghi in cui lui lavorava. I colleghi mi aspettavano sotto l’ufficio quando parcheggiavo: se non erano già sotto, li aspettavo in auto”.
La violazione del divieto di avvicinamento, nell’aprile del 2022, ha portato infine a una misura aggravata. Il sudanese si era giustificato dicendo di non sapere che l’alloggio che aveva preso in affitto fosse a trecento metri appena dall’abitazione della sua ex “tutor”. Una versione a cui lei non crede: “Purtroppo con le buone non l’ha mai capito, tante volte aveva promesso che mi avrebbe lasciata in pace ma poi non lo ha mai fatto. Mi sento ancora in pericolo”. Il giudice si è riservato di decidere sull’istanza di revoca del divieto di dimora richiesta dalla difesa, alla quale la Procura si è dichiarata contraria. L’istruttoria proseguirà il 26 gennaio.
a.c.
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