Caporalato, gli imprenditori accusati: “Pagavamo in nero, ma non siamo sfruttatori”
Si difendono gli imputati finiti a giudizio dopo l’inchiesta Momo: “I lavoratori africani non ci dissero che un nostro dipendente era in realtà un caporale”Pagamenti in nero sì, ma nessuno sfruttamento nei confronti dei lavoratori. Hanno parlato per ore due dei principali accusati nel primo processo per caporalato celebrato di fronte a un giudice del tribunale di Cuneo.
Il 28enne Diego Gastaldi, titolare di un’azienda agricola a Lagnasco, è a processo insieme alla madre Marilena Bongiasca e al padre Graziano. Con loro devono rispondere di analoghe accuse anche il 33enne Moumouni Tassembedo, ex dipendente dei Gastaldi e presunto caporale, e tre responsabili di un allevamento avicolo di Barge: Andrea Depetris, Agnese Peiretti e Monica Coalova. L’operazione era stata ribattezzata “Momo”, dal soprannome del bracciante originario del Burkina Faso che secondo gli inquirenti avrebbe agito come reclutatore nelle due imprese, esercitando un potere pressoché assoluto sugli stagionali africani che venivano assunti: lui decideva chi confermare e chi cacciare, gestiva i pagamenti in nero e non, prelevava alcuni braccianti impegnati nella raccolta della frutta a Lagnasco e li accompagnava a lavorare nell’allevamento di polli a Barge. Il tutto, beninteso, in cambio di contributi in denaro e “regali”.
Nella penultima udienza è stato l’ex dipendente a spiegare al giudice le sue ragioni, negando di aver mai preteso né accettato pagamenti dagli altri braccianti e confermando anzi le accuse rivolte ai Gastaldi: “C’era una paga in busta nella quale venivano segnate non più di sette giornate di lavoro mensili e degli importi più alti. Poi c’era la paga ‘vera’, cinque euro all’ora per otto o dieci ore al giorno”. Una parte dei soldi, ha aggiunto, veniva trattenuta: “Erano le spese per luce e gas della cascina, toglievano anche 80 euro a ciascun dipendente: quando abbiamo chiesto di vedere le bollette siamo stati lasciati a casa due settimane. Lamentarsi equivaleva a cercarsi un altro lavoro: ci veniva risposto ‘è quello che possiamo dare’ e finiva lì”.
Tutto falso, ha replicato il giovane imprenditore, a capo di una ditta che arriva a reclutare tra i 60 e gli 80 braccianti nel periodo della raccolta: “I lavoratori vengono retribuiti con la paga sindacale e non hanno mai lavorato nei festivi. È vero che pagavamo una minima parte in nero, ma era per non danneggiarli in un periodo difficile per noi”. Gastaldi ha negato di aver mai chiesto ai suoi dipendenti di restituire una parte del compenso: “L’unica trattenuta erano i cento euro di cauzione per chi veniva ospitato nella nostra cascina. Serviva a sensibilizzarli rispetto a eventuali danni, ma abbiamo sempre restituito i soldi a tutti. All’inizio non facevamo pagare le bollette agli occupanti, poi abbiamo deciso di farlo perché c’era un via vai di gente non assunta da noi che veniva solo per lavarsi: temevamo che emergessero problemi in caso di controlli”.
All’azienda frutticola di Lagnasco si imputano anche altre irregolarità: alcuni braccianti sarebbero stati irrorati dagli antiparassitari mentre lavoravano nei filari, altri ancora affermano di aver guidato i mezzi senza patentino o di aver “coperto” occasionali infortuni. “Abbiamo terreni su 80 ettari, circa cento campi da calcio affiancati. Che senso avrebbe irrorare l’antiparassitario proprio lì dove lavorano i braccianti? Non si riuscirebbe nemmeno a passare col trattore” è la replica di Gastaldi. L’imputato ha ricordato che l’azienda non ha mai avuto cause di lavoro fin da quando ad amministrarla era suo padre: “Abbiamo sempre fornito il materiale anti-infortunistico e mai fatto guidare chi era senza patentino. Gli infortuni? Venivano tutti denunciati, del resto i lavoratori erano assunti in modo regolare”.
E i rapporti con Momo? Per l’agricoltore lagnaschese, era un dipendente come gli altri. Solo dopo che aveva lasciato l’impiego erano venuti a conoscenza dei problemi con gli ex colleghi. Lo ha ribadito anche la madre di Gastaldi, Marilena Bongiasca, che si occupava di paghe: “Tassembedo non ha mai avuto trattamenti di favore. Quando se n’è andato abbiamo saputo che alcuni stagionali venivano costretti da lui a lavorare in un’altra azienda durante la notte, anche se non volevano. Ci hanno raccontato che, se non lo facevano, Momo li lasciava a casa inventando malori o impedimenti per giustificarne l’assenza. Gli abbiamo chiesto perché non l’avessero detto prima, loro hanno risposto che pensavano che parlare con noi non sarebbe servito a niente, sapevano benissimo che non dipendeva dai datori di lavoro”.
Andrea Cascioli
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