Cinque condanne nel primo processo per caporalato nella Granda
Pene tra i tre e i cinque anni per le due famiglie di imprenditori di Lagnasco e Barge coinvolte nell’inchiesta “Momo”. Il “caporale” è stato condannato a sua voltaSi chiude con cinque condanne e due assoluzioni il primo processo per caporalato celebrato di fronte a un tribunale della Granda.
Il giudice Alice Di Maio ha condannato Moumouni Tassembedo, il “caporale” da cui aveva avuto origine l’indagine, a cinque anni di carcere. Analoga pena è stata comminata al suo ex datore di lavoro Diego Gastaldi e alla madre Marilena Bongiasca, titolari di un’azienda agricola a Lagnasco. Andrea Depetris e la moglie Monica Coalova, responsabili di una ditta avicola di Barge per conto della quale aveva lavorato lo stesso Tassembedo, sono stati condannati a tre anni. Assolti invece Graziano Gastaldi e Agnese Peiretti, rispettivamente padre di Diego Gastaldi e madre di Andrea Depetris, perché il fatto non sussiste.
Il processo traeva origine dalle indagini portate avanti dalla Digos nel Saluzzese a partire dall’estate 2018. L’inchiesta “Momo” è stata così denominata dal soprannome con il quale era conosciuto uno degli indagati, il 34enne del Burkina Faso Moumouni Tassembedo, che aveva fatto da tramite fra i lavoratori sfruttati e alcune aziende agricole della zona. Insieme a lui sono finite a processo due famiglie di imprenditori agricoli, i Gastaldi di Lagnasco e i Depetris di Barge. La Procura contestava il fatto che almeno 19 braccianti africani fossero stati impiegati con una paga oraria inferiore ai 5 euro: due di loro si sono costituiti parte civile, così come hanno fatto la Cgil di Cuneo, il sindacato agricolo Flai Cgil e l’associazione Sicurezza e Lavoro.
Mesi di intercettazioni, appostamenti e controlli in azienda, cominciati dopo la “soffiata” di uno stagionale, hanno portato alla formulazione di un lungo elenco di accuse. In casa di Momo, dopo una perquisizione nel gennaio 2019, erano stati ritrovati numerosi contratti di lavoro riferiti ad altri stagionali, bigliettini con i nominativi dei braccianti impiegati dai Gastaldi e i relativi giorni da retribuire, domande di disoccupazione. Sul cellulare dell’indagato si erano scoperti anche i contatti con Depetris e Coalova: nella chat denominata “La banda dei pennuti” gli scambi di informazioni su chi reclutare. Presso i Gastaldi il “soprastante” alloggiava i lavoratori, quattro per stanza, in un’abitazione di Lagnasco dove lui stesso aveva vissuto per un periodo in una camera separata. Era lui a decidere le paghe, prima 5 e poi 5,50 euro all’ora, sempre però tenendo conto che “trattenute” e richieste di denaro per le ragioni più disparate erano all’ordine del giorno: “In quel momento tutta la mia vita era nelle mani di Momo, ma in cuor mio sapevo che non dovevamo agire così” ha dichiarato uno dei numerosi testimoni sentiti dal giudice.
Il sostituto procuratore Carla Longo aveva parlato di “caporalato grigio” per descrivere il fenomeno. Una sopraffazione attuata senza violenza fisica o minaccia, ma facendo leva sulla paura degli immigrati di perdere il lavoro o il permesso di soggiorno. “Diritti trasformati in concessioni” secondo la rappresentante dell’accusa, con l’aggravante che le trattenute, i doppi turni massacranti (di giorno nei campi a Lagnasco, di notte in allevamento a Barge) e le altre irregolarità venivano imposti ai lavoratori africani ma non agli altri dipendenti, italiani o stranieri, delle due aziende.
A beneficio dei due braccianti costituitisi nel processo il giudice ha disposto un risarcimento, con provvisionale quantificata rispettivamente in 50mila e 15mila euro. Diecimila euro per ciascuna delle tre associazioni. In aggiunta, per Tassembedo è stata disposta una sanzione pecuniaria di 14700 euro, per Diego Gastaldi e Marilena Bongiasca di 14mila euro, per Andrea Depetris e Monica Coalova di 8400 euro. Tutti gli imputati sono stati interdetti per la durata di due anni dalla possibilità di assumere cariche nelle imprese e di ricevere sussidi dallo Stato o dall’Unione Europea.
Andrea Cascioli
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