Confermata in appello la prima sentenza contro il caporalato saluzzese
La condanna passa da cinque a tre anni per Momo Tassembedo, al centro di un sistema di reclutamento che coinvolgeva aziende agricole di Lagnasco e BargeLe condanne restano, le pene però si riducono. La Corte d’Appello di Torino ha confermato la sentenza del tribunale di Cuneo nel primo processo per caporalato celebrato nel Nord Italia.
Per Moumouni Tassembedo detto Momo, il “caporale” 36enne del Burkina Faso da cui tutto ha avuto origine, la condanna passa da cinque a tre anni. Pene ridotte anche per Diego Gastaldi e la madre Marilena Bongiasca, titolari di un’azienda frutticola di Lagnasco, dai cinque anni del primo grado a tre anni e sei mesi. Andrea Depetris e Monica Coalova della cooperativa Monviso di Barge, entrambi responsabili di un allevamento avicolo, erano stati condannati a Cuneo a tre anni di reclusione: in appello hanno patteggiato una condanna a un anno e undici mesi. Restano le multe e per il solo Tassembedo le statuizioni civili nei confronti di un lavoratore sfruttato che si era costituito in giudizio e dei sindacati Flai Cgil e Cgil provinciale.
“Prendiamo atto della importante riduzione della pena e della somma confiscata - commentano gli avvocati Enrico Collidà e Antonio Tripodi, difensori dei Gastaldi -. Tuttavia non ci riteniamo soddisfatti perché crediamo ci sia la possibilità di un esito ancora più favorevole. Dunque leggeremo le motivazioni e valuteremo con i clienti di ricorrere in Corte di Cassazione”.
Il deposito delle motivazioni è previsto dopo la metà di dicembre. Intanto si volta un’altra pagina in una vicenda segnata da un pronunciamento storico, ora ribadito in appello. Il giudice Alice Di Maio, nel 2022, aveva parlato nella sentenza di primo grado di “svilimento costante della dignità dei lavoratori”, per descrivere il sistema messo in piedi da Momo e dai suoi datori di lavoro. Una “tolleranza diffusa verso forme di sotto-lavoro in cui il contratto è solo formalmente ineccepibile ma il contesto di lavoro è, di fatto, deregolamentato per via di vistose sacche di lavoro grigio” rispetto alle quali il bracciante rinuncia “più o meno consapevolmente” ai contributi, al riposo, alla sicurezza e a condizioni abitative dignitose “pur di garantirsi nell’immediato qualche introito”.
“Caporalato grigio” lo aveva chiamato nella requisitoria il sostituto procuratore Carla Longo: nessuna violenza, poche minacce esplicite. Il meccanismo di sfruttamento però funzionava, con paghe in nero e falsi “periodi di prova”, trattenute arbitrarie, “rimborsi” non dovuti ma pretesi sul rilascio dei CUD e altro ancora. La Digos aveva iniziato ad indagare su tutto questo nell’estate del 2018, dopo aver raccolto le rivelazioni di un bracciante. Momo faceva prelevare alcuni dei ragazzi che di giorno lavoravano nei frutteti dei Gastaldi e li portava a fare la raccolta dei polli dai Depetris. Le microspie sul furgone che li trasportava da Saluzzo avevano carpito le confidenze degli extracomunitari: “Questo lavoro nessuno lo accetterebbe. Se non hai altro lavoro. Altrimenti neanche un pazzo accetterebbe… nessuno altro potrebbe accettare questo”. Lo sapevano loro e lo sapeva anche chi li faceva lavorare. Tant’è che lo stesso Momo, una volta, si lamenta con Depetris perché l’autista del Ducato parla troppo: “Abramo deve smettere di dire ai ragazzi che sono venuti albanesi e un suo cugino parente marocchino e sono andati via, perché noi africani accettiamo di fare il lavoro a questo prezzo, mentre loro a questo prezzo non lo fanno”.
Era il periodo “caldo” della crisi migratoria, ricorderà Diego Gastaldi in aula: “C’era molta più offerta che non domanda di lavoro, infatti hanno creato dei problemi anche nella città di Saluzzo”. A “risolvere problemi” doveva pensare anche Momo, uno che la miseria vera l’aveva conosciuta: “Ho dormito per la prima volta della mia vita su dei cartoni a terra per due mesi” raccontava in una lettera, parlando del suo arrivo a Saluzzo nel 2012. Prima ancora era stato a Napoli da irregolare, pagato 120 euro alla settimana per dodici ore di lavoro al giorno, poi a Rosarno, un altro inferno del caporalato. Mai più, aveva detto a sé stesso, giurando che non sarebbe diventato “uno degli africani che per strada fa il vagabondo”: “Siamo qui per lavorare, per far soldi. Non sono qui per guardare le facce della gente”.
Andrea Cascioli
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