“Non si cancellano realtà imprenditoriali a colpi di condanne per caporalato”
Nel processo Momo due famiglie del Saluzzese sono accusate di sfruttamento ai danni dei braccianti: “Tutti hanno commesso irregolarità, ma Saluzzo non è Rosarno”“Qui non si processa Saluzzo, si processano le nostre aziende”: vale come riassunto di una lunga e dettagliata arringa il monito pronunciato dall’avvocato Antonio Tripodi, legale di tre dei sette imputati alla sbarra nel primo processo per caporalato celebrato a Cuneo.
Saluzzo non è Rosarno, non è Pachino, non è Foggia, proclamano tutti i difensori delle persone coinvolte nell’operazione Momo, l’inchiesta della Digos che ha scosso un intero territorio nel 2019. Il nome deriva da quello del principale accusato e presunto caporale, Moumouni Tassembedo, 34enne del Burkina Faso. Secondo la Procura il caposquadra avrebbe operato come reclutatore per conto di due famiglie di imprenditori agricoli del Saluzzese per cui lavorava, i Gastaldi di Lagnasco e i Depetris di Barge. Mesi di intercettazioni, appostamenti e controlli in azienda, cominciati dopo la “soffiata” di uno stagionale nell’estate 2018, hanno portato alla formulazione di un lungo elenco di accuse.
A Momo si imputa di aver agito per anni come un padre-padrone nei confronti degli altri braccianti africani, sfruttati e sottopagati rispetto ai colleghi italiani o dell’Est europeo. Richieste di compensi indebiti e altri salassi sul già magro stipendio degli stagionali sarebbero passati attraverso di lui, con la compiacenza dei datori di lavoro. A questi ultimi, in particolare ai Gastaldi, si fa carico inoltre di aver preteso “rimborsi” non dovuti e di aver costretto decine di dipendenti a vivere in condizioni degradanti presso una cascina annessa all’azienda. Un’accusa che l’altro difensore degli agricoltori lagnaschesi, l’avvocato Enrico Collidà, ritiene più di ogni altra infondata: “C’è stato un momento in cui la cascina veniva quasi rappresentata come una casa degli orrori. Io ci sono stato e garantisco che non è affatto diversa da una colonia parrocchiale: letti a castello, muri un po’ scrostati, nulla di più”.
L’arringa di Collidà è un atto di accusa contro chi le accuse le ha formulate: “L’operazione Momo è stata spettacolarizzata dalla Procura. In conferenza stampa abbiamo visto foto, video, colonne musicali tipo Shining, un uso a tappeto dei social. Ma in aula i testi d’accusa non hanno puntato il dito, come forse ci si aspettava”. In aula, in realtà, c’è chi ha raccontato di essere stato costretto a restituire metà della paga mensile, chi ha parlato dei “regali” a Momo, chi ha affermato che il caposquadra costringesse alcuni colleghi a lavorare di giorno nei campi di Lagnasco e di notte nell’allevamento dei Depetris, a Barge: turni da dieci o undici ore, zero garanzie. Tutti, però, hanno detto di non aver mai trattato di persona coi padroni: “Momo diceva che i capi non hanno bisogno di tutti per lavorare”, secondo uno di loro.
I singoli addebiti, peraltro, non vengono respinti in blocco dalle difese: gli imprenditori, ha chiarito l’avvocato Tripodi, “sapevano di non poter pagare in nero parte della retribuzione, né segnare in busta paga un numero inferiore di giornate, ed è oggi evidente anche a loro che avrebbero dovuto organizzare meglio gli aspetti amministrativi, per evitare equivoci. Gli inquirenti hanno pensato che pretendessero la restituzione di parte dello stipendio versato, invece erano solo cauzioni per gli attrezzi o la cascina”. Se il procuratore Carla Longo aveva descritto il quadro riscontrato come una forma di “caporalato grigio”, per le difese il grigio è diventato sempre più chiaro in istruttoria: “Nessun lavoratore ha riferito di minacce dai Gastaldi, avessero come oggetto il lavoro o il rinnovo del permesso di soggiorno”.
Circa i rapporti con Momo, si nega che il dipendente fosse qualcosa di più di un interprete, prezioso per la sua rete di conoscenze: “Non ha mai agito da reclutatore, né da esattore. Le segnalazioni sui braccianti da assumere potevano venire da lui come da altri. Per il resto non era trattato in modo diverso dai colleghi: anche lui guidava il semovente, potava, raccoglieva la frutta come tutti”. Certo, rimangono le irregolarità contributive, le paghe in nero: “La verità innegabile - ammette Collidà - è che su questi presupposti si potrebbe spazzare via l’intero settore agricolo cuneese. Tutte le aziende di medio-grandi dimensioni operano in questo modo per contenere i costi: non è giusto, è sbagliato, ma lo si fa. Non possiamo pensare di cancellare le realtà imprenditoriali a colpi di condanne penali per caporalato”.
L’ultimo atto del processo, il verdetto del giudice, è atteso il prossimo 11 aprile.
Andrea Cascioli
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