Processo al caporalato, è il momento delle difese: “Quei braccianti non lavoravano in miniera”
I legali dei sette implicati nell’inchiesta Momo ammettono le violazioni, ma non l’accusa pesante formulata dal pm: “Per il lavoro nero non meritano anni di galera”Il lavoro nero? Esisteva, sebbene “in casi marginali e molto ridotti”. Le violazioni in tema di sicurezza lavorativa? Anche, certo. Tutti comportamenti esecrabili ma che “non meritano anni di galera”, sostengono i difensori degli imputati alla sbarra nel primo processo per caporalato in provincia di Cuneo.
Due le famiglie di imprenditori coinvolte, i Depetris di Barge e i Gastaldi di Lagnasco, insieme al presunto caporale Moumouni Tassembedo, un 34enne arrivato dal Burkina Faso, in Italia da un quindicennio. Il suo soprannome, Momo, è anche quello dell’inchiesta avviata dalla Digos nel 2018, dopo la “soffiata” di un immigrato del PAS di Saluzzo. Tutti laggiù sapevano che a Momo si dovevano rivolgere gli africani in cerca di un impiego: lui li trovava sul piazzale del Penny Market e con un furgoncino li portava a raccogliere la frutta a Lagnasco, nell’azienda gestita da Diego Gastaldi con l’aiuto del papà Graziano e della mamma Marilena Bongiasca. Qualcuno, oltre a questo lavoro, ne svolgeva un altro in orario notturno presso la cooperativa Monviso di Barge, attiva da tre generazioni nell’allevamento di polli e carni bianche. Il referente Andrea Depetris è finito anche lui a processo, insieme alla moglie Monica Coalova e alla madre Agnese Peiretti.
Numerose le violazioni contestate dalla Procura, sulla scorta delle intercettazioni raccolte nei mesi di indagine, della documentazione in sequestro e delle testimonianze. “Tutta la mia vita era nelle mani di Momo, ma in cuor mio sapevo che non dovevamo agire così” ha raccontato uno dei braccianti, parlando delle “trattenute” sulla paga e delle richieste di denaro per i motivi più disparati: “A fine mese tutti facevano un regalo a Momo, alcol o altro: lui non lo chiedeva esplicitamente ma chi non lo faceva non sarebbe stato trattato nello stesso modo”. Gli altri lavoratori lo chiamavano “le vieux père”, il vecchio padre, un appellativo che fa sorridere riferito a un ragazzo di nemmeno trent’anni, ma giustificato dal forte ascendente esercitato sui suoi “bons fils”, i bravi figli: “Si sentiva investito di una sorta di responsabilità etnica, radicata nella sua identità di burkinabè” spiega il suo avvocato, Guido Savio.
Neanche lui punta a dimostrare che tutto quanto accadeva tra Lagnasco e Barge fosse regolare: “Le intercettazioni sono quelle che sono e Tassembedo ha ammesso di aver tenuto una serie di condotte”. Il punto, però, è che “Momo non era un ‘caporale di professione’, non era estraneo all’azienda, era anche lui un lavoratore che svolgeva le stesse mansioni degli altri e percepiva le stesse retribuzioni”. A lui i lavoratori si rivolgevano in prima persona, fidando delle sue competenze linguistiche: “Non c’era nessuna opera di convincimento e nessuno è stato da lui ‘reclutato’ in senso proprio”. Anche il sostituto procuratore Carla Longo, del resto, ha parlato di “caporalato grigio”: un sistema ibrido, senza violenza, senza ricatti espliciti, ma capace di far capire chi comanda, all’occorrenza. In una delle telefonate con la segretaria di Gastaldi, ad esempio, Momo parla di “uno che devo levarmi dai piedi”, senza troppe spiegazioni sul perché quel “figlio ribelle” andasse licenziato in tronco.
Per le difese, tuttavia, non esisteva quello “stato di bisogno” che è il presupposto giuridico per poter parlare di caporalato: “Nessuno degli stagionali era privo di permesso di soggiorno e non lo avrebbero perso nemmeno se avessero rinunciato al lavoro, secondo la legge” ricorda il legale di Tassembedo. D’altronde, aggiunge, “i bisogni e le aspettative dei braccianti africani sono quelli degli immigrati a bassa qualifica, diversi da ciò a cui potrebbe aspirare un profugo siriano di classe media”.
“Nessuna violazione disumana, questi ragazzi non sono stati mandati in miniera” ribadisce l’avvocato Chiaffredo Peirone, legale dei Depetris. Per il resto, poco avevano da attendersi in quella cooperativa perché poco gli potevano offrire: “Depetris sapeva che alcuni dipendenti avevano un altro lavoro o poteva comunque immaginarlo, perché non avrebbero potuto vivere con i 70 euro che la cooperativa pagava loro per una prestazione occasionale”. La raccolta dei polli si svolgeva di necessità in orario notturno, per circa tre ore, con turni variabili e squadre formate “al bisogno”: “Questa è la legge del mercato ed è l’imperativo cui deve sottostare la cooperativa Monviso per stare in piedi e per continuare a pagare gli stipendi”. Un’azienda con 54 soci lavoratori e 18 dipendenti, tutti inquadrati e retribuiti: “Lavoro nero? Solo in casi marginali. Ogni anno la cooperativa versa due milioni e mezzo in retribuzioni ai dipendenti”. Quanto alle condotte più gravi, “da nessuna parte risulta che i componenti della famiglia Depetris siano stati a conoscenza delle minacce poste in essere da Tassembedo, posto che ci fossero”.
Il prossimo 7 marzo parleranno le difese dei Gastaldi, prima del verdetto finale del giudice.
Andrea Cascioli
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