Processo al caporalato, parla il principale accusato: “Mai preso soldi dai braccianti che aiutavo”
Momo Tassembedo è imputato per sfruttamento, assieme ai suoi datori di lavoro di Lagnasco e Barge: “Non volevo essere un altro africano che dorme in strada”Ha risposto alle domande del pubblico ministero e degli avvocati per quattro ore, esprimendosi in un italiano con poche incertezze. In aula Moumouni Tassembedo era elegante, ben curato, sebbene al giudice abbia spiegato di non avere più un domicilio fisso: “Ho il permesso di soggiorno lavorativo, ma dopo l’arresto non sono più riuscito a trovare lavoro”.
Le manette ai polsi dell’ex bracciante, accusato di essere un “caporale” della frutta, erano scattate nel gennaio del 2019 dopo vari mesi di indagini coordinate dalla Digos di Cuneo. Quella che gli inquirenti hanno ribattezzato con il suo soprannome, Momo, non è un’inchiesta qualunque: si tratta infatti del primo procedimento giudiziario avviato in provincia di Cuneo per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera, introdotto nel 2016. Insieme a lui sono finiti sul banco degli imputati i suoi ex datori di lavoro, componenti di due nuclei familiari: i Gastaldi di Lagnasco e i Depetris di Barge, rispettivamente titolari di un’azienda frutticola e di un allevamento di pollame e carni bianche. Per l’accusa Momo avrebbe agito come reclutatore nelle due imprese, esercitando un potere pressoché assoluto sugli stagionali africani che venivano assunti: lui decideva chi confermare e chi cacciare, gestiva i pagamenti in nero e non, prelevava alcuni braccianti impegnati nella raccolta della frutta a Lagnasco e li accompagnava a lavorare nell’allevamento di polli a Barge. Il tutto, beninteso, in cambio di contributi in denaro e “regali” che nessuno avrebbe potuto rifiutare: “In quel momento tutta la mia vita era nelle mani di Momo, ma in cuor mio sapevo che non dovevamo agire così” ha raccontato uno di loro, parlando dei turni estenuanti e delle paghe molto inferiori a quelle dichiarate.
Tassembedo, dal canto suo, giura di non aver mai fatto altro che aiutare gli altri africani, facendo da interprete per loro. Anche lui del resto - ha spiegato - affrontava ritmi di lavoro talvolta disumani: “Arrivavo a lavorare anche quindici ore in un giorno: dopo la raccolta della frutta dormivo due o tre ore e ripartivo”. Il reclutamento viaggiava attraverso il tam-tam tra i lavoratori: i padroni gli chiedevano se avesse qualcuno da segnalare, lui a sua volta si rivolgeva ai colleghi più fidati. Un passaparola in amicizia, assicura: “Cosa ci guadagnavo? Il diritto di far parte del gruppo di quelli che non sarebbero stati lasciati a casa”. E il rispetto degli altri braccianti, naturalmente: “Qualcuno mi ha dato in cambio sigarette o casse di birra, spesso me li lasciavano in auto senza che nemmeno sapessi chi ringraziare. Che avrei dovuto fare? Ma i soldi non li ho mai chiesti a nessuno: quando un certo Ibrahim ha cercato di darmi 50 euro glieli ho restituiti”.
La storia personale dell’uomo, proveniente dal Burkina Faso e oggi 33enne, è simile a quelle di molti altri. Arrivato in Italia dieci anni fa, aveva lavorato a Rosarno in Calabria, poi era salito in Piemonte dormendo in stazione a Saluzzo. Quindi l’incontro con Marilena Bongiasca, madre di Diego Gastaldi, propiziato dai carabinieri dopo uno sgombero. Momo aveva vissuto per un periodo a Lagnasco nella cascina messa a disposizione dai Gastaldi, insieme ad altri braccianti: “Tanti, almeno trenta o quaranta”. Poiché era quello che comprendeva meglio l’italiano, era lui a ricevere le direttive e a risolvere i problemi: “C’era una paga in busta nella quale venivano segnate non più di sette giornate di lavoro mensili e degli importi più alti. Poi c’era la paga ‘vera’, cinque euro all’ora per otto o dieci ore al giorno”. Una parte dei soldi, ha confermato, veniva trattenuta: “Erano le spese per luce e gas della cascina, toglievano anche 80 euro a ciascun dipendente: quando abbiamo chiesto di vedere le bollette siamo stati lasciati a casa due settimane. Lamentarsi equivaleva a cercarsi un altro lavoro: ci veniva risposto ‘è quello che possiamo dare’ e finiva lì”.
Si pagava per la propria dotazione anti-infortunistica, per il CUD, per le giornate passate a casa dopo un infortunio che non venivano retribuite. Una situazione che secondo Tassembedo era nota anche ai sindacati e forse perfino alle forze dell’ordine: “Ogni anno a febbraio venivano i sindacalisti della Cisl, chiedevano se era stato tutto saldato e ci facevano compilare dei fogli. Noi dicevamo sempre che andava tutto bene, poi l’azienda ci prendeva 50 euro dalle paghe per ogni chiusura di rapporto. Ora mi piacerebbe chiedergli perché ci portavano via quei soldi e perché se li facevano consegnare da me, ma all’epoca nessuno si sarebbe permesso di fare una domanda del genere”.
Tutt’altra situazione nella ditta di Barge, sostiene l’accusato, smentito però dalle testimonianze di altri africani che prendevano parte alla raccolta dei polli. Con i Depetris erano Momo e un altro soprastante a gestire tutte le operazioni di carico e consegna, attraverso una chat di Whatsapp denominata ‘La banda dei pennuti’: “Ma non è vero che consegnavo le paghe in nero agli altri”. Per lui si trattava, in ogni caso, di mettersi in buona luce con chi gli aveva offerto un’occasione: “Non volevo essere un altro degli africani qualunque che dormono per strada”.
Andrea Cascioli
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