Processo al caporalato, parlano i sindacalisti: “Per alcuni è normale pagare per lavorare”
Nel primo procedimento di questo genere a Cuneo sono imputati il presunto caporale Momo Tassembedo e i suoi ex datori di lavoro di Lagnasco e BargeHanno sfilato tra testimoni anche i segretari provinciali della Cgil e della Flai Cgil di Cuneo, Davide Masera e Andrea Basso, per spiegare il senso della loro partecipazione al primo processo per caporalato celebrato nella Granda.
Si tratta del procedimento a carico del 33enne del Burkina Faso Moumouni Tassembedo, detto ‘Momo’, il presunto “caporale” finito alla sbarra insieme ai suoi ex datori di lavoro: i titolari dell’azienda frutticola Gastaldi di Lagnasco, formata da Diego Gastaldi con il padre Graziano e la madre Marilena Bongiasca, e quelli della ditta Depetris di Barge, ovvero Andrea Depetris con la madre Agnese Peiretti e Monica Coalova, attiva nell’allevamento di pollame e carni bianche. Nell’estate 2018 la Digos aveva avviato su di loro un’indagine scaturita dalla segnalazione di un africano, ospite nel PAS di Saluzzo. Il bracciante riferiva che Momo faceva da “collettore” della manodopera per conto di due aziende della zona, circostanza confermata anche da altri immigrati. Stando alle accuse, almeno 19 braccianti africani sarebbero stati impiegati con una paga oraria inferiore ai 5 euro: due di loro si sono costituiti come parti civili.
Sono parti civili anche i sindacati che per primi avevano raccolto le denunce sui presunti abusi commessi nelle due aziende: turni massacranti, precarie condizioni di sicurezza nei frutteti dei Gastaldi e nella raccolta dei polli presso i Depetris, pagamenti in nero o con l’obbligo di restituire una parte dello stipendio ricevuto. “Quando una nostra collega è andata sul posto - racconta il sindacalista Masera - ha visto un atteggiamento un po’ ambiguo da parte di Momo. Ma per questi lavoratori ‘ricompensare’ il caporale era un dovere: nella loro ottica, è giusto pagare per lavorare”. La situazione dell’azienda di Lagnasco, spiega un’operatrice del sindacato, era già stata vagliata nel 2017: “Un lavoratore ci riferì che loro non accedevano ai nostri servizi perché temevano ripercussioni. Abbiamo seguito uno di loro per gravi problemi di salute, ricordo di avergli chiesto perché non fosse andato prima in ospedale e lui mi disse che in azienda gli avevano detto di evitare. Mi aveva raccontato anche che dava 50 euro ogni mese a Momo per continuare a lavorare. Un altro bracciante venne da noi e scoprimmo che Momo l’aveva licenziato su richiesta dei datori di lavoro perché era stato male”. In generale, però, “non riuscivamo a parlare con i dipendenti della ditta Gastaldi. Avevamo capito che c’erano tantissimi braccianti rispetto a quelli denunciati e molte anomalie. Sapevamo che la cascina di Lagnasco in cui alloggiavano era sovraffollata, con 70 o 80 persone”.
Non tutti i lavoratori, però, confermano quanto emerso dalle prime testimonianze: “Quando pioveva smettevamo di lavorare, solo dopo il capo ci chiedeva se volevamo ricominciare. Il trattore? Non l’ho mai guidato prima di prendere il patentino” racconta un 28enne di origini maliane, tuttora dipendente dell’azienda Gastaldi. I rapporti con Momo erano distesi ma anche lui, ammette, aveva pagato per tenerselo buono: “Sono arrivato nel 2014 e prendevo 5,50 euro all’ora per sette o otto ore al giorno. Però dovevo pagare a mia volta Momo: per un paio d’anni mi chiedeva 20 o 30 euro al mese, dopo sempre 50. Era stato lui a chiedermelo, affermando che se non l’avessi fatto poteva lasciarmi a casa e inventarsi qualche scusa. Sono stato anche in punizione per aver versato in ritardo: Momo diceva che i capi non hanno bisogno di tutti per lavorare”. Sul fatto che i titolari dell’azienda fossero o meno al corrente della cosa, il 28enne risponde: “Qualcuno sosteneva che i capi lo sapessero, ma io non ne ho mai parlato con loro”.
Un punto su cui tutti concordano è che le gerarchie operavano in modo ferreo: nessuno poteva parlare con i padroni senza passare attraverso Momo. Molti non avrebbero comunque potuto farlo, perché non in grado di esprimersi in italiano. Tra le contestazioni a carico degli imprenditori c’è l’aver alterato le certificazioni reddituali per permettere ai braccianti, cui venivano segnate in busta paga meno giornate di quelle effettivamente svolte, di arrivare all’importo necessario per ottenere la carta di soggiorno (6mila euro l’anno). Anche questa operazione, però, avrebbe richiesto un’indebita “trattenuta” sullo stipendio: “Per il CUD Momo mi aveva detto che i capi chiedevano 300 euro. Non so se sia andata così, comunque glieli ho dati” precisa un altro dipendente dei Gastaldi, un 30enne maliano.
C’è poi chi conferma di aver lavorato sia di giorno nella raccolta della frutta che di notte nell’allevamento di Barge: “Nella ditta dei polli non ho mai visto nessun capo. Prendevo sette euro all’ora. Ma c’erano delle condizioni: loro pagavano Momo in contanti e lui si teneva la parte che considerava giusta, perché era lui che ci aveva trovato il lavoro, il resto lo divideva con noi. Sul nostro salario prendeva dai 50 agli 80 euro”. Un altro testimone, arrivato a Saluzzo nel 2015 come richiedente asilo, descrive condizioni di lavoro dure in entrambi i posti: “Non mi hanno mai fornito misure di protezione né per la frutta né per la raccolta dei polli. Usavo io quello che avevo. La raccolta della frutta veniva fatta a volte anche alla domenica, con un macchinario che guidavano tutti: non avevo nessun patentino per guidare e nessuno me l’ha chiesto. In un’occasione litigai con il titolare perché voleva che continuassimo nonostante la pioggia forte e il rischio di farsi male. Mi ha detto che se non avessi voluto sottostare alle sue condizioni, avrei potuto andarmene”.
Nelle prossime udienze del 21 ottobre e del 15 novembre il giudice ascolterà i testi della difesa: anche tre degli imputati, tra cui Tassembedo, hanno annunciato di volersi sottoporre all’esame. La discussione finale è fissata per il 25 novembre.
Andrea Cascioli
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