Processo al caporalato saluzzese, in oltre cento pagine le ragioni della condanna
Il giudice parla di “svilimento costante della dignità dei lavoratori”. Gli africani erano disposti a tutto: “Neanche un pazzo accetterebbe questo lavoro”Non è facile riassumere le centoundici pagine di motivazione della sentenza di condanna contro cinque imputati di un processo, il primo celebrato davanti al tribunale di Cuneo per il reato di caporalato. Ci si può provare partendo da un’immagine letteraria, un brano del capolavoro di John Steinbeck “Furore”: “Dove c’è lavoro per uno, accorrono in cento. Se quell'uno guadagna trenta cents, io mi contento di venticinque. Se quello ne prende venticinque, io lo faccio per venti. No, prendete me, io ho fame, posso farlo per quindici. Io ho bambini, ho bambini che han fame! E questo, per taluno, è un bene, perché fa calare le paghe, rimanendo invariati i prezzi. I grandi proprietari giubilano, e fanno stampare altre migliaia di volantini di propaganda per attirare altre ondate di straccioni. E le paghe continuano a calare, e i prezzi restano invariati. Così tra poco riavremo finalmente la schiavitù”.
Questa era l’America degli anni Trenta del XX secolo, l’era della grande depressione. Lontana nel tempo e nello spazio, ma non così tanto, dalla Saluzzo del XXI secolo: “C’era molta più offerta che non domanda di lavoro, infatti hanno creato dei problemi anche nella città di Saluzzo, come si sapeva, per la gente che era accampata a dormire fuori, tutta la storia del Foro boario, dove c’erano… c’era una specie di accampamento con 600-700 persone”. Lo ha detto in aula Diego Gastaldi, agricoltore 28enne di Lagnasco, uno degli accusati di sfruttamento della manodopera: il giudice di primo grado lo ha condannato a cinque anni di reclusione, insieme alla madre Marilena Bongiasca. Cinque anni anche per Moumouni Tassembedo detto Momo, il “caporale” da cui tutta l’inchiesta aveva preso avvio nell’estate del 2018. A tre anni sono stati condannati invece Andrea Depetris e Monica Coalova, responsabili della cooperativa Monviso di Barge. Assolti con formula ampia Graziano Gastaldi, il padre di Diego, e Agnese Peiretti, la madre di Depetris.
Momo, da bracciante a caporale con l’incubo di tornare in strada
“Questo lavoro nessuno lo accetterebbe. Se non hai altro lavoro. Altrimenti neanche un pazzo accetterebbe… nessuno altro potrebbe accettare questo”: parole molto diverse da quelle degli imputati, pronunciate non in tribunale ma all’interno di un Fiat Ducato, di notte, al freddo. Qui si ritrovavano alcuni degli africani che Momo prelevava dopo una giornata di lavoro nei frutteti dei Gastaldi e portava a fare la raccolta dei polli nello stabilimento avicolo dei Depetris. Turni sfiancanti che cominciavano la mattina e finivano nel cuore della notte, intervallati da due, tre ore di sonno e da un pasto frugale. Nel furgone, dove la Digos intercettava le loro conversazioni, uno dei braccianti racconta di quella volta che Momo l’aveva visto addormentarsi sul volante in auto: “Mi ha guardato a lungo fino a che mi ha detto ‘tu lascia stare, vai a riposarti’. Quando mi ha detto quello è stato come se qualcuno mi avesse aperto la porta del paradiso”.
Quando riposarsi, però, lo decideva lui solo. È anche lui una figura da romanzo di Steinbeck, il caposquadra arrivato dal Burkina Faso, oggi 34enne. Al processo ha parlato con un misto di franchezza e studiata ingenuità di se stesso e dei suoi rapporti con i datori di lavoro dell’epoca: “Siamo qui per lavorare, per far soldi. Non sono qui per guardare le facce della gente”. La sua ossessione, dice, era di non finire come “uno degli africani che per strada fa il vagabondo” ed era una preoccupazione ben motivata, perché per strada c’era stato per davvero, prima di conoscere i Gastaldi e poi i Depetris. In Italia arriva nel 2007, lavora come bracciante irregolare a Napoli (“un anno e mezzo ho lavorato dalle 6 di mattina alle 6 di sera per 120 euro alla settimana, in nero”), poi a Rosarno (“un’esperienza che non voglio più rivivere”), infine a Saluzzo. Nel 2012 scriveva così in una lettera: “È stato a Saluzzo dove ho dormito per la prima volta della mia vita su dei cartoni a terra per due mesi e i carabinieri ci rompeva (sic) le … la Caritas ci portava 22 panini per una cinquantina di persone (secondo me gli piaceva vederci lottare per i panini). Io in Africa non potevo pensare che in Europa esiste questa cosa”. Ma ci sono anche “i bei ricordi”, quelli di “brave persone che ci ha dedicato il loro tempo libero”, come “il gruppo anti razzista di Saluzzo”.
Non sono le parole di un “padroncino”, di uno sfruttatore, di uno che intimidisce i connazionali e gli altri africani, anche senza minacciare in maniera esplicita. Eppure Momo è la persona che pochi anni dopo quella lettera verrà intercettato mentre impone alla segretaria di Gastaldi di licenziare un bracciante riottoso: è uno da “levarsi dai piedi”, dice testuale. O ancora, mentre impartisce ordini precisi su cosa fare e non fare durante i controlli dei carabinieri in azienda: “Se vi chiedono dite che non capite la lingua (…) racconta tutto in dioula (lingua parlata nell’Africa occidentale, ndr), non mettere neanche una parola in francese (…) se ti chiamano digli che non capisci niente, di chiamarmi, così traduco io”. Quanto all’occupazione, “digli che ognuno si è cercato e trovato il lavoro da solo”. Una bugia evidente, dimostreranno le indagini. È Momo che va a prendere i braccianti sul piazzale del Penny Market, che sceglie chi tenere e chi scartare in base ai “regali” ricevuti da loro, che compone le squadre per i Depetris. Loro, in particolare, si affidano a lui in tutto e per tutto: i lavoratori non li conoscono nemmeno per nome. E Momo addirittura si spazientisce con Depetris, il capo, quando viene a sapere che l’autista marocchino del furgone su cui i “suoi ragazzi” viaggiano da Saluzzo a Barge fa discorsi pericolosi: “Abramo deve smettere di dire ai ragazzi che sono venuti albanesi e un suo cugino parente marocchino e sono andati via, perché noi africani accettiamo di fare il lavoro a questo prezzo, mentre loro a questo prezzo non lo fanno”.
Le responsabilità degli imprenditori: “Falsi benefattori”
Quello, appunto, è un lavoro che “neanche un pazzo accetterebbe”. Per giunta gli africani si ritrovano a farlo senza tute protettive, senza mascherine, senza stivali e guanti. Illuminanti, anche su questo, le conversazioni tra Tassembedo e Depetris: “La macchina la troverai bene però i pidocchi ne troverai tanti tanti tanti perché ne abbiamo su tutto il corpo, quindi in macchina ne rimarranno (sic) anche qualcuno”. Chi può rifiuta il “doppio lavoro”, ma non a tutti è concesso: “La gente ha cominciato a rifiutare. Visto che aveva noi, ha cominciato a obbligare noi ad andare a prendere i polli” racconterà una delle vittime. Gli stagionali dormono in una cascina messa a disposizione dai Gastaldi, su insistenza delle autorità. Una sistemazione spartana che la difesa paragonerà a “una colonia estiva”, ma che per il giudice è qualcosa di diverso: “Camere stipate di letti a castello e letti singoli, presenti anche in una stanza adibita a cucina con numerose coperte alcune delle quali sistemate in modalità ‘tenda’”. L’unica forma di riscaldamento sono le stufe elettriche, in compenso “per le utenze” ciascun lavoratore paga in media 80 euro.
“A fronte del tentativo di accreditarsi come benefattori” si legge nelle motivazioni della condanna, a proposito degli imprenditori, “l’approfittamento dello stato di bisogno delle persone offese è reso evidente dal fatto che, per stessa ammissione degli imputati, si determinavano a non regolarizzare parte dell’attività lavorativa”. Paghe in nero e falsi “periodi di prova”, trattenute arbitrarie, “rimborsi” non dovuti ma pretesi sul rilascio dei CUD e altro ancora: nella sentenza tutto questo viene messo nero su bianco. Si cita una conversazione in cui la Bongiasca si accorda con Tassembedo in questi termini: “Allora facciamo che loro firmano che gli ho dato mille ma in realtà io gli do anche 500 davanti a loro, eh?”. Dopo un controllo, invece, Diego Gastaldi si lamenta con Momo, perché uno dei braccianti ha indicato una paga oraria troppo bassa: “Ha detto cinque, neanche cinque e cinquanta”.
Uno “svilimento costante della dignità dei lavoratori”, secondo il tribunale, alimentato dalla “tolleranza diffusa verso forme di sotto-lavoro in cui il contratto è solo formalmente ineccepibile ma il contesto di lavoro è, di fatto, deregolamentato per via di vistose sacche di lavoro grigio” rispetto alle quali il bracciante rinuncia “più o meno consapevolmente” ai contributi, al riposo, alla sicurezza e a condizioni abitative dignitose “pur di garantirsi nell’immediato qualche introito”. Un quadro sfumato, grigio, nulla di troppo netto e nemmeno di troppo evidente. Forse è per questo che a qualcuno riesce difficile, ancora oggi, ammettere che il caporalato possa esistere anche qui, a dieci minuti di furgone dal centro di Saluzzo.
Andrea Cascioli
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