Come formichine malate?
Riflessioni a margine di “Un’estate in montagna” di Elizabeth Von ArnimIn un’ intervista rilasciata a Gianfranco Anzini per il programma “Di là dal fiume e tra gli alberi”, andato in onda su Rai Tre il 15 agosto ( replica di una puntata di dicembre 2022), Fredo Valla accenna con un po’ di disincanto alla visione romantica che molti dei nuovi montanari hanno della montagna, identificata come il luogo dei buoni sentimenti, dove tutto è buono e bello. Ma si sbagliano, continua Valla, perché anche in montagna esistono il bene e il male, anzi il male qui può essere più cattivo. Come in tutte le piccole comunità, infatti, il controllo sociale è maggiore ed è frequente la discriminazione delle persone che si percepiscono come diverse. Una visione romantica o, meglio, una visione “ristoratrice”, salvifica, quasi terapeutica della montagna. Un tempo nelle valli venivano costruiti i sanatori, dove ci si curava da malattie respiratorie gravi, come la tubercolosi: pensiamo al romanzo La veranda di Salvatore Satta, scritto fra il 1928 e il 1930, in cui viene accuratamente descritta la vita in un sanatorio montano. Come non pensare, poi, a La montagna incantata di Thomas Mann (1924). Oggi in montagna non si curano soltanto i mali del corpo, ma anche e soprattutto i mali dell’anima, sempre più frequenti. Le giovani generazioni, in particolare, avvertono un’inquietudine da cui in alcuni momenti sembrano sovrastati, disorientati, feriti. Dopo gli anni dell’adolescenza con gli eccessi, le sperimentazioni, i tentativi di farsi strada nella vita, sopraggiunge il momento delle scelte importanti, l’ingresso nell’età adulta, percepita come un ingranaggio alienante, stritolatore, annichilente. Qualcuno sente il bisogno di sfuggire al sistema, di andare controcorrente, di considerare più importante l’essere piuttosto che l’avere o il fare. Qui entra in gioco la montagna, intesa come il luogo migliore in cui vivere la propria alterità rispetto al sistema. La montagna, allora, si tinge di tutti i colori più positivi e inevitabilmente un potente retaggio culturale di origine romantica si fa sentire: la montagna è “alta”, quindi più elevata in senso lato: pura, sana, non contaminata, preservata. Pensiamo all’incipit di Un’estate in montagna,romanzo pubblicato nel 1920 dalla scrittrice Elizabeth Von Arnim: "Adesso voglio tranquillità. Come una formichina malata stamani sono partita dal fondovalle per arrampicarmi fin quassù". Il romanzo è scritto sotto forma di un diario tenuto dal 22 luglio al 15 ottobre 1919 da una signora inglese di mezza età, che si è recata in Svizzera per superare l'angoscia derivante dagli orrori della prima guerra mondiale.
Nell’incipit troviamo, esattamente un secolo fa, alcune motivazioni che ancora oggi spingono alla scelta di vivere in montagna: la ricerca della tranquillità, la speranza di guarire da un profondo malessere esistenziale. L’espressione come una formichina malata rende benissimo l’idea di chi umilmente, ma tenacemente, si vuole arrampicare fin quassù per dare o ritrovare un senso alla propria vita. Basta leggere Abeio Abeio di Diego Anghilante per rendersi conto di quanto questo approccio “salvifico” alla montagna possa essere insidioso per chi lo tenta e per le comunità coinvolte. Vivere in montagna è una scelta che richiede grande consapevolezza dei propri limiti e di quelli del nuovo ambiente. Bisogna prepararsi, informarsi, formarsi. La montagna non consente approssimazione e improvvisazione. Le piccole comunità che vivono nelle valli non riescono più, per la loro esiguità, per la loro stanchezza, per la mancanza di servizi, a supportare i nuovi arrivati come forse questi si aspetterebbero. A Ostana, in valle Po, una piccola comunità sta rifiorendo, è vero, ma bisogna conoscere bene quali sono le condizioni che hanno permesso questa rinascita: un confluire di energie culturali, politiche, economiche che non è affatto semplice ricreare in altri contesti.
d.b.
CUNEO formichine