La giustizia sommaria degli anni di piombo: quarant’anni fa l’assassinio di Giorgio Soldati in carcere a Cuneo
L’aspirante brigatista fu ucciso per aver fornito informazioni alla polizia, dopo essere stato picchiato. Aveva accettato il “verdetto” degli altri detenuti“Nella sala mensa erano in otto. Alcuni a far chiasso e a chiacchierare. Altri, i giustizieri, a compiere il misfatto. Hanno trascinato la loro vittima nell’attiguo gabinetto. Preso per il collo, Soldati è stato soffocato mentre qualcuno ha cercato una scheggia tagliente, spaccando lo specchio del lavabo. Con un vetro tagliente l’hanno sgozzato. Non soddisfatti, gli hanno riempito la bocca con dell’immondizia tappando tutto con un fazzoletto. Quando le guardie si sono accorte che mancava all’appello, sono andate a cercarlo, era ancora vivo ma ormai cianotico. Inutile è stata la corsa all’ospedale”.
Sono passati quarant’anni dall’assassinio del terrorista torinese - era originario di Rivoli - Giorgio Soldati, avvenuto il 10 dicembre del 1981 nel carcere di Cuneo. Una storia quasi dimenticata, ma che ancora oggi fa venire i brividi non solo per l’efferatezza dei fatti, ma anche per la cinica convinzione che animava i “giustizieri”. Il giorno successivo, La Stampa Sera titolava: “Uccidono quando vogliono in carcere!”. L’estratto dell’articolo a firma di Alessandro Rigaldo rende bene l’idea del clima che regnava negli anni di piombo, una delle stagioni più difficili per l’Italia repubblicana e su cui restano ancora molti punti oscuri.
L’estremizzazione della lotta politica, da piazza Fontana in poi, ha costretto il Belpaese a subire tragedie immani: la strage neofascista di piazza della Loggia a Brescia, quelle dell’Italicus e della stazione di Bologna, ma anche le azioni terroristiche ad opera delle Brigate Rosse e di altre formazioni dell’estrema sinistra. La più nota è l'attacco "al cuore dello Stato” portato con il sequestro, dal 16 marzo al 9 maggio 1978, del presidente della Dc Aldo Moro, ucciso dopo 55 giorni di prigionia.
La formazione di gruppi estremisti di sinistra, che accusavano il Partito Comunista Italiano di aver tradito la classe lavoratrice e di non voler attuare la “rivoluzione comunista”, iniziò a fine anni ‘60. Secondo questi militanti, infatuati dall’idea di provocare il sollevamento delle masse oppresse, il PCI si era ormai integrato nel “sistema di potere”.
È difficile riassumere in poche righe una delle stagioni più complesse della Repubblica, ma questo basti per comprendere l’ambiente in cui si svolse l’omicidio di Soldati. Nell’81 la strategia della lotta armata era in difficoltà. Dopo il sequestro Moro, le Br avevano perso gran parte di quel sostegno sociale di cui avevano goduto per vent’anni. In un recente saggio sugli anni di piombo, lo storico torinese Gianni Oliva sostiene che “il terrorismo prosperò grazie a chi diceva: compagni che sbagliano”, riferendosi al celebre cliché giustificazionista in voga all’epoca.
Nonostante nell’81 fossimo avviati al tramonto di quella fase, Giorgio Soldati, 35 anni, un diploma da geometra e una vita passata a fare l’imbianchino e l’artigiano edile, era uno di quelli che nella lotta armata era disposto a credere fino alla morte, malgrado qualche sbandamento. E furono quei dubbi, o presunti tali, a costargli la vita.
Soldati, da poco fuoriuscito da Prima Linea, era stato arrestato il 13 novembre dello stesso anno, accusato dell’omicidio di un poliziotto alla stazione centrale di Milano commesso insieme a un altro compagno dei COLP (Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria), il gruppo della sinistra extraparlamentare di cui faceva parte. Il suo presunto complice era ritenuto l’autore materiale del delitto. Quando Soldati venne interrogato, nelle stanze della Questura di Milano i poliziotti gli “cercarono l'anima a forza di botte”, per citare i versi della canzone di Fabrizio De André. Il terrorista fu spinto con questi metodi a rivelare una serie di informazioni sulle attività di diverse formazioni militanti, che portarono ad alcuni arresti e alla scoperta di diversi covi.
In seguito Soldati ritrattò le confessioni e fu inviato nel carcere di Cuneo, da dove non uscirà mai. A Cerialdo, prigione di massima sicurezza, erano detenuti diversi militanti dell’estrema sinistra, tra cui molti brigatisti. Soldati aveva l’ambizione di unirsi proprio alle Br e spinse per essere messo nella loro ala, ma non aveva fatto i calcoli con l’intransigenza che regnava nell’ambiente nei confronti dei “traditori”.
Il Corriere della Sera, il 28 dicembre 1981, pubblicherà una lettera scritta da Soldati ai compagni di detenzione del carcere di Cuneo: “Sono stato torturato, ho parlato, ma ho cessato subito ogni forma di collaborazione (…). Non ho avuto e non posseggo ancora una giusta e chiara preparazione politica; non ho avuto e non ho cercato, in prima persona, un costante dibattito politico; non c’era un programma immediato e strategico né al nostro interno né diretto al movimento proletario; per questo confermo di avere con lo Stato un rapporto di guerra e di aver cessato ogni collaborazione”.
Parole che, evidentemente, non furono ritenute convincenti. È ancora il Corriere a pubblicare un documento paradigmatico. Il volantino di rivendicazione dell’omicidio, intitolato “Epitaffio per un coccodrillo infame”: “(…) Questo verme proviene da quelle frange della lotta armata che, non avendo saputo adeguarsi ai compiti della nuova fase, cercano di sopravvivere alla loro morte politica, preoccupandosi più di se stesse che dei bisogni della classe. Gli elementi più deboli, appena sono messi alle strette dal nemico, spesso accettano di collaborare, pronti magari, un minuto dopo, a versare lacrime di coccodrillo sulle ‘merde’ che sono e sui compagni che hanno venduti agli sbirri. (…) Alla Digos sono bastati un paio di schiaffi per fargli vuotare il sacco. Infatti, a meno di due ore dall’arresto, Soldati aveva già cantato. Proseguendo per tre giorni, ha fatto così arrestare sei compagni e ha fatto trovare cinque case. (…) I coccodrilli infami possono essere molto utili al movimento rivoluzionario. La loro eliminazione rappresenta un segnale per tutti quei combattenti e reduci scoppiati, incasinati, incerti. (…) Contro la delazione, la dissociazione e la resa: terrore rosso”.
Dal canto suo Soldati aveva accettato il verdetto: “È la giustizia proletaria che deve giudicarmi”. E questa giudicò, mentre l'ordine di trasferimento del giudice si perse nei meandri della burocrazia. Per il suo omicidio vennero poi processati e condannati sette detenuti, due dei quali confessarono: Giorgio Semeria, del nucleo storico delle Brigate Rosse, e Vittorio Alfieri, capo delle brigate milanesi. Gli altri condannati, tutti a 21 anni di carcere, furono Carlo Bersini, Alfredo Bigiani, Claudio Piunti, Salvatore Ricciardi e Mario Fracasso. Le guardie carcerarie che non avevano vigilato vennero coinvolte nelle prime fasi del processo, poi successivamente prosciolte.
Alle udienze partecipò anche Mario Soldati, padre di Giorgio, costituitosi parte civile. Non contro gli assassini, ma contro lo Stato. Nella sua deposizione spiegò: “Mio figlio non era un delatore. Lo Stato, che gli aveva strappato con mezzi illegali delle rivelazioni, aveva il dovere di tutelare la sua vita. Io vorrei soltanto che le responsabilità venissero accertate. (…) Ho l’impressione, che è quasi una certezza, che si sia agito con tutta leggerezza, assenteismo, lassismo, menefreghismo che rasenta il collaborazionismo. Come uomo che ha avuto due figli finiti nel terrorismo, posso comprendere quel che succedeva in quegli anni terribili. Ma lo Stato no, non lo giustifico: doveva proteggere mio figlio. Lui che si è messo davanti ai suoi boia con le mani in tasca, che non ha reagito. Perché questa era la sua coerenza”.
Una storia cruda, ma vale la pena, seppur per sommi capi, di ricordarla tuttora.
Samuele Mattio
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