Ottant'anni fa la morte del partigiano Mario Ferrua, primo caduto della Banda Val Pesio
Appena diciannovenne, fu ucciso dai fascisti nei pressi della Cappella di San RocchettoIn occasione dell'ottantesimo anniversario della morte del partigiano Mario Ferrua, avvenuta il 21 febbraio 1944 per mano fascista nei pressi della Cappella di San Rocchetto, in via Provinciale San Bartolomeo, il Comune di Chiusa Pesio e il Museo della Resistenza “I Sentieri della Memoria” rendono omaggio al primo Caduto della Banda Val Pesio, appena diciannovenne.
Di seguito, condividiamo l’articolo pubblicato nel 1945 su "Movimento", periodo del M.U.R.I-Movimento Unitario del Rinnovamento Italiano. Il testo pubblicato nelle ore immediatamente successive all’uccisione di Ferrua viene ripreso integralmente su “Rinascita d’Italia” (Poesia Armata), foglio clandestino della III Divisione Alpi.
Il primo Caduto: Mario Ferrua
Un movimento insolito, una interrogazione sulle labbra di tutti i Chiusani: “partigiani o fascisti”? Un gruppo di uomini armati e vestiti in ogni foggia, gira per le strade del paese, con le facce scure, con le armi pronte. Dopo poco una sparatoria, bombe a mano; un correre spaventato e curioso. Che è? Al bivio di S.Rocchetto un camioncino di partigiani è stato fermato (mediante spartineve in mezzo alla strada). Sei erano e fiduciosi: fermarono e il più giovane balzando svelto dal camion grida: “Non sparate, siamo partigiani anche noi”. Non ha udito la risposta, perché una raffica lo ha colpito al cuore ed è caduto con la bocca schiusa, sereno; l’ombra del dubbio non lo ha potuto sfiorare: “siamo partigiani anche noi”.
L’ho visto all’ospedale, chè di andare sulla piazza del paese dove il comandante di quella marmaglia, di fronte al corpo ancora caldo del primo Caduto nostro, teneva una concione, non ho avuto il coraggio; mi sono state riferite le parole uscite da quella bocca oscena: non ricordo che una frase: “è ora di finirla di ucciderci tra fratelli”, ed un’altra ancora: “ecco la belva della montagna, guardatela!”. E la belva della montagna, ancora sanguinante, bagnava di rosso il selciato della piazza e la gente muta, sbalordita, incredula a tanta crudeltà guardava senza osar proferire parola di commento.
Ti hanno preso a calci Mario, ti hanno malmenato; ma tu non li vedevi. Tu, la belva della montagna, erravi tra gli spazi celesti, o forse eri accanto ai tuoi compagni feriti che tornavano a dare a tutti i partigiani la triste notizia. E gli sciacalli partivano in fretta; c’era pericolo; essi, che avevano sparato contro di te che ignaro e sorridente andavi loro incontro, temevano i tuoi compagni; le altre belve della montagna. Ti lasciarono là disteso e la carità della gente ti raccolse e portò all’ospedale. Fu là che ti vidi, bello nella morte dei santi. Ho sollevato la giacca per vedere le tue ferite perché non credevo alla tua morte: io ti vedevo respirare. E così ti ricordo, con i tuoi colori che ancora conservavi, con la tranquilla e serena espressione della tua fede.
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Una staffetta stravolta e affannosa: “un morto e due feriti gravi!”...”chi è il morto?”, “ancora non si sa: giovanissimo, biondo, ricciuto, robusto; con un pastrano marrone”. “È Mario Ferrua” esclama il capitano e nel suo volto improvvisamente impietrito si scorge il dolore acutissimo come una lama di coltello nel cuore. Era il cucciolo della Banda, Mario, sempre vicino al suo comandante che amava come un fratello.
E ora improvvisamente il comandante si rende conto di quello che era Mario: fedele coraggioso entusiasta, più d’una volta aveva, con la sua ingenua fiducia, dato nuova forza all’animo stanco, allo spirito scettico dei più anziani; compagno instancabile nelle ore più dure della fatica, sempre primo nei più pericolosi colpi di mano, con la divina incoscienza del fanciullo ignaro del volto orribile della morte.
Arriva il misero corteo sanguinante: volti segnati dalla lotta, corpi traforati dalle raffiche e sostenuti dai compagni pietosi, bocche tremanti di pianto al ricordo del compagno Caduto, occhi sfavillanti di sdegno per l’infamia della vilissima imboscata. Parole di cocente rammarico per l’inutile nostra generosità di pochi giorni prima che aveva risparmiato dal massacro un’intera compagnia di fascisti accerchiata al Pian delle Gorre, per evitare spargimento di sangue fraterno.
Nell’ospedaletto della piccola borgata montana, le Suore spaurite si prodigano a medicare le ferite sanguinanti; i compagni attorno con sguardo affettuoso tentano incuorare i colpiti; i reduci incolumi dall’imboscata, raccontano con frasi concitate i particolari dell’azione. Il comandante, accigliato, parte con tre compagni per il paese a riconoscere la situazione, acquistare medicinali e recuperare la salma.
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I pattini della slitta scricchiolano tristemente sulla neve soffice; la bara scura sulla neve bianca scivola inesorabilmente verso l’ignoto come i nuovi destini della nostra lotta; i nostri pensieri sono torbidi nel cervello, come i nostri sguardi nel brulicare bianco della neve che cade…par di sognare: in quelle quattro tavole male inchiodate c’è il volto bianco di Mario Ferrua, il suo corpo rigido dal petto traforato e insanguinato che va verso la povera dimora nella terra fredda, nell’immensa solitudine della montagna. E presto verrà la Madre, e non sapremo cosa dirle, potremo soltanto piangere con Lei. Era il più giovane, il più buono, il più coraggioso: ce lo aveva dato fiduciosa, non abbiamo saputo difenderlo dalla morte.
Sotto il portico squallido del rifugio ove prima si ricoverava il mulo nel tempo di neve, ora è la cosiddetta “camera ardente” del nostro Caduto: due panche e sopra la bara ornata miracolosamente di un tricolore. Due partigiani stracciati e mal ricoperti che, rigidi sull’attenti, vegliano.
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Con quale volto, con quali parole l’abbiamo accolta? Non sappiamo. È giunta per lunghe strade e sentieri di neve per vedere il suo figliolo; non crede ancora che sia morto; morta è Lei di stanchezza e di emozione, ma abbraccia il figlio e lo chiama coi più dolci nomi dell’infanzia e dice “…ricordi Mario?” e sorride sperduta nel passato felice, ma poi improvvisamente: “…te l’avevo detto Mario, sii prudente; sei l’unico mio sostegno; ma tu eri troppo forte e coraggioso…” e la querela si perde nel pianto disperato. Così rimane tutta la notte e l’indomani fino alla sepoltura. Noi assistiamo inebetiti alla tragedia immane di questo dolore e ci sentiamo sperduti nella solitudine e ci pare che la natura e gli uomini siano tutti contro di noi e che il nostro destino sia compiuto.
Sono istanti terribili di sconforto che supereremo soltanto domani col nuovo sole abbagliante sulla neve fresca. Ma intanto abbiamo visto nell’avvenire, abbiamo capito la strana giustizia di questa guerra dove i fratelli devono uccidere i fratelli ferocemente…Abbiamo capito che i nostri Caduti saranno la sola luce che illuminerà la nostra strada, la sola forza che ci sosterrà nel cammino; che essi non possono essere caduti invano e perciò l’avvenire sarà migliore; che noi dobbiamo essere degni del loro estremo sacrificio sacrificandoci a nostra volta senza lamenti.
Questo ti dobbiamo, o Mario Ferrua, nostro primo Caduto!
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Terra gelata, faticosamente scavata dai compagni tutta la notta. Pietose preghiere del sacerdote; strane e nuove preghiere nel cuore dei partigiani: preghiere che cantano misteriosamente nei cuori e che nessuno conosce.
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E la lotta fratricida comincia. Lotta che noi abbiamo aborrita e che le vere belve ci hanno imposta. A loro soli il pianto di tutte le madri, le torture di tutti i nostri martiri, i lutti di tutte le nostre famiglie. Peso immane che graverà nei secoli su coloro che hanno tradito le eterne leggi dell’umanità e della giustizia.
c.s.
CHIUSA DI PESIO Chiusa Pesio