Piemontese, lingua di poesia: “Nel dialetto le parole aderiscono alle cose”
Giovanni Tesio, filologo e sonettista, ha presentato a Dronero la raccolta “Paròla, amisa mia”: “Fare sonetti è lottare contro la chiacchiera”Che cos’è un dialetto? È una lingua che ha perso la contesa con la storia. Così la pensa Giovanni Tesio, filologo e critico letterario che allo studio del piemontese ha dedicato buona parte della sua carriera di studioso e che oggi continua a rendergli omaggio attraverso la poesia.
“Paròla, amisa mia” è il titolo della raccolta presentata all’Espaci Occitan di Dronero, in occasione del festival Ponte del Dialogo. Un libro tirato in 333 copie che vuole essere anche una dichiarazione d’amore alla grande letteratura. “Un libro piccolo piccolo dal punto di vista dimensionale, ma immenso quando si sfoglia” lo racconta Rosella Pellerino, introducendo l’autore: il suo, dice, “è un viaggio nel tempo e nella letteratura dall’antichità fino ai giorni nostri, dalla latinità all’America”.
La scelta del piemontese, si capisce subito, non è un vezzo ma un fatto carnale: “Il luogo ha un’importanza fondamentale” dice Tesio. Perché “il luogo ti alleva e al luogo ti allevi, io per esempio ho imparato prima il piemontese di Pancalieri e poi l’italiano. Come una lingua straniera, diceva Pavese”. Di qui la predilezione per la lingua di casa: “Io scrivo in italiano, ma quasi sempre ho la sensazione che quello che scrivo in italiano non abbia la stessa energia di ciò che scrivo in piemontese”. Non è questione di ricchezza lessicale, spiega. Anzi, quella che chiama “la lingua dell’affettività, della concretezza e dei sentimenti primi” è quanto di più scarno: “A volte si dice che il dialetto sprizza di una ricchezza fantasiosa: ma il linguaggio di casa era rado, penso di aver imparato fin lì cosa sia la sintesi. È l’idea che ci sia un’essenzialità che nella poesia, ciò che va salvaguardato”. In uno dei versi il poeta, echeggiando Lalla Romano, ricorda “le bocche strette di mamma e papà”: “Faccio riferimento al fatto che nel mio mondo contadino le parole erano rare”.
Al desiderio di essenzialità si riconduce anche la sua predilezione per una forma poetica considerata desueta, antimoderna, ovvero il sonetto. Quel sonetto che, si legge, obbliga a trovare parole “chiuse come il guscio di noce” e che “fanno una musica delle nocciole, battendo contro la carta”. “Trovo sia una classe sonora formidabile, in cui l’essenzialità della parola trova il suo cespite più fruttuoso” sottolinea l’autore: “Fare sonetti è lottare contro la chiacchera: l’ambizione è quella di dire, con il poco, il tanto”.
“Solidi come patate, parole e versi durano se gli dai spazio” ha scritto Sylvia Plath. Un’immagine che il filologo fa sua, ricordando non solo la patata come emblema di vita contadina, ma anche quanto il “sospiro della patata” agitasse i dannati della Shoah: lo si coglie nelle pagine di Primo Levi, che di Tesio è stato maestro. “Le poesie sono come patate, morbide e feconde stanno dove le metti” recita uno dei sonetti. Ma c’è anche la parola che crolla, che non sostiene: il fallimento della poesia. O l’incapacità di colpire, con la parola, quanto vorremmo dire. In poesia, osserva Tesio, tutto si fa più grave, “perché ogni parola dev’essere una parola che dice”: “In questo senso dico che scrivere nei vari dialetti vuol dire cercare il modo migliore perché la parola aderisca alla cosa, più di quanto non accada nella lingua italiana”.
Le cosiddette lingue locali “sono lingue e non sono dialetti, anche se la storia li ha emarginati ed è inutile andare contro la storia: il piemontese sarebbe potuto diventare una lingua nazionale, se avesse avuto un Dante, un Boccaccio o un Petrarca”. Nella poesia, infine, tornano alla dignità di lingua. Una trasmutazione che si coglie nelle parole con cui Rainer Maria Rilke parlava di un poeta alsaziano amatissimo, dicendo di lui: “Non quest’uomo ha poetato in dialetto, ma il dialetto è diventato poesia in lui”.
Andrea Cascioli

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