Quando il Forte Albertino di Vinadio era utilizzato come campo di prigionia
Nel 1862 vi furono rinchiusi un migliaio di garibaldini, mentre durante la Prima Guerra Mondiale toccò ai prigionieri austriaci: le cronache del tempo, tra racconti "edulcorati" e tentativi di fugaDopo un abbandono durato anni, oggi il Forte di Vinadio è tornato a rivivere e risplendere: la fortezza, posta nel cuore della valle Stura, ospita eventi culturali, fiere e iniziative di vario genere grazie alla volontà e all’impegno del Comune di Vinadio, dell’associazione culturale Marcovaldo (fino al 2016) e della Fondazione Artea, subentrata nel 2017, che negli anni si sono spesi per la valorizzazione e la promozione di uno dei più importanti esempi di architettura militare delle Alpi occidentali. I lavori di costruzione della fortezza, voluta dal Re Carlo Alberto, iniziarono nel 1834 e terminarono nel 1847, con un’interruzione tra il 1837 e il 1839: per la sua realizzazione in alcuni momenti furono impegnate fino a 4 mila persone. La fortificazione, che fiancheggia a ponente l’abitato di Vinadio, ha una lunghezza in linea d’aria di circa 1.200 metri che si sviluppa dalla roccia del fortino al fiume Stura. Il percorso si snoda su tre livelli di camminamento ed è suddiviso in tre fronti: Fronte Superiore, Fronte d’Attacco e Fronte Inferiore, per un totale di circa 10 chilometri. Nel corso degli anni i rapporti politici instabili con la vicina Francia suggerirono di integrare al Forte nuove strutture, i Forti Piroat, Sarziera, Sources e Neghino. Malgrado sia, come detto, un vero e proprio gioiello di architettura e ingegneria militare, il Forte di Vinadio non è mai stato teatro di scontri ed eventi bellici.
La fortezza fu però a più riprese utilizzata, oltre che come deposito di materiali militari, come campo di prigionia. A Vinadio furono per esempio rinchiusi circa un migliaio di garibaldini fatti prigionieri nella Battaglia di Aspromonte (agosto 1862), quando l'Esercito Regio fermò il tentativo di Giuseppe Garibaldi e dei suoi volontari di completare una marcia dalla Sicilia verso Roma e scacciare papa Pio IX. Scrive a questo proposito lo storico cuneese Maurizio Ristorto: “Nel 1862 passano in paese sotto scorta militare, i garibaldini di Aspromonte, dove il 2 agosto viene stroncata la marcia su Roma iniziata da Garibaldi e da alcune migliaia di suoi seguaci; il Regio Governo la giudica per il momento inopportuna e provocatrice di gravi complicazioni. I Garibaldini sono arrestati e per un migliaio di essi viene fissato come luogo di prigionia il Forte di Vinadio. Provenienti da Genova con la scorta di un battaglione del 67° Fanteria agli ordini del capitano di Stato Maggiore Giuria, essi giungono a Cuneo la mattina del 18 settembre; benché il ministro abbia dato ordine che siano provveduti di tutto il necessario per il viaggio, la grande maggioranza dei prigionieri si trova in cattive condizioni; abiti pressoché a brandelli e scarpe rotte, molti a capo nudo o coperto da un misero cencio; piove a dirotto e si deve compiere il cammino a piedi da Cuneo a Vinadio. Non manca la prova di simpatia da parte della gente: a Borgo San Dalmazzo si fa una colletta per l’acquisto di sigari che sono accettati assai di buon grado e si noleggiano carrozze per il trasporto almeno fino a Demonte dei meno atti a proseguire a piedi, ma il capitano Giuria, interpretando con estremo rigore l’ordine avuto d’un trattamento uguale per tutti ricusa l’offerta”. I Garibaldini rimasero prigionieri per 24 giorni a Vinadio, con ogni probabilità nella parte bassa della fortezza, più vicina al corso del fiume Stura. Essi (e con loro lo stesso Garibaldi) vennero amnistiati alla prima occasione possibile: il matrimonio di Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II, con il re del Portogallo il 5 ottobre 1862. Vennero poi liberati alla spicciolata fino al 7 novembre, salvo i più “pericolosi” che furono accompagnati a domicilio sotto scorta.
Nel corso della Prima guerra Mondiale, poi, il Forte di Vinadio fu “spogliato” delle armi: destino comune a tutte le opere delle Alpi occidentali, in quanto le artiglierie furono inviate a rimpinguare lo scarso parco armamenti sul fronte austriaco. Durante il conflitto la fortezza della valle Stura fu ancora una volta adibita a campo di prigionia, questa volta per i prigionieri austro-ungarici. Degli anni della Grande Guerra si parla nel volume "I prigionieri di guerra in provincia di Cuneo, 1915-1919", pubblicato da Nerosubianco nel 2018, nel quale l'autore Roberto Martelli ha inserito un corposo capitolo dedicato al Forte di Vinadio. Secondo una pubblicazione dello storico Lodovico Tavernini in Piemonte i campi di prigionia e di lavoro per prigionieri di guerra erano ben 35, dei quali cinque nella Granda: oltre a Vinadio c’erano quelli di Cuneo, Fossano, Lagnasco e del Colle di Tenda. Le vicende di quegli anni sono ripercorse in maniera molto dettagliata nel libro “Cuneo e la Grande Guerra”, dello storico cuneese Gerardo Unia, pubblicato da Nerosubianco Edizione nel 2014. In particolare, Unia ricostruisce - attraverso le cronache dell’epoca - i ripetuti tentativi di fuga, con esiti alterni, da parte dei prigionieri. Uno dei primi avvenne all’inizio di agosto del 1915 al forte del Colle di Tenda, ma a causa delle restrizioni imposte dalla censura la stampa locale aveva potuto darne notizia solamente a fine mese: un tenente di vascello boemo e un guardiamarina istriano erano riusciti ad uscire dalla sala da pranzo del forte senza essere visti, nascondendosi nei servizi per poi fuggire attraverso una finestra. Il tentativo andò però a vuoto: i due furono arrestati dai Carabinieri di Limone alla stazione ferroviaria di Robilante, con addosso i biglietti già perforati per il controllo. La storia avrebbe poi avuto risvolti da romanzo giallo, con una donna che pochi giorni dopo sarebbe poi stata arrestata a Limone, accusata di essere complice della fuga dei due ufficiali: tra conferme e smentite, la vicenda tenne banco per diversi giorni sui giornali locali, su tutti “La Sentinella delle Alpi” e il “Corriere Subalpino”. Uno dei due ufficiali austriaci, restìo ad arrendersi, avrebbe poi nuovamente tentato la fuga, venendo fermato a Isola dai gendarmi francesi.
Le notizie sulla vita dei prigionieri nei campi cuneesi, in ogni caso, non erano infrequenti sulle pagine delle cronache locali. Nel 1916 i giornali presero anche a pubblicare le lettere inviate dai prigionieri austriaci alle loro famiglie, selezionandole accuratamente in modo da esaltare il trattamento riservato loro dai carcerieri italiani: non sempre questo corrispondeva alla realtà, ma era semplicemente un tentativo dei prigionieri di rassicurare le famiglie sulle loro condizioni di prigionia. Una testimonianza della vita in prigionia a Vinadio, riportata da Alessandro Tortato in “La prigionia di guerra in Italia”, pubblicato nel 2011 da Ugo Mursia Editore, è proprio quella di Wenzel Wosecek, il tenente di vascello boemo citato poche righe fa: “Dopo pochi giorni potei rendermi conto che la vita di un prigioniero a Vinadio era cosa abbastanza misera. - scrisse nelle sue memorie l’irrequieto prigioniero - Tutte le piccole comodità che ci avevano reso un po’ migliore la vita al Colle di Tenda, qui non esistevano. La cosa più dolorosa era di non avere la possibilità di muoversi. Ci si doveva accontentare ognuno di due ore di passeggiata prima e dopo mezzogiorno in cortili piccoli, polverosi e sporchi, per muovere un po’ le gambe. Le altre ore del giorno le trascorrevamo nella nostra stanza attendendo senza appetito di recarci in spoglie sale da pranzo. La stanza era in una casamatta diroccata. Una fessura sul muro costituiva la finestra, per terra un tavolaccio di travi mal segate, due letti, due cassettiere, due sgabelli, un armadio e due catini. Questi oggetti arredavano una grossa stanza in modo veramente poco accogliente”. La propaganda, in questo senso, era molto insistente: i racconti sugli “agi” (veri o presunti) concessi agli austriaci nei campi di detenzione italiani si contrapponevano a quelli sugli stenti e le sofferenze patiti dai prigionieri italiani nei campi austro ungarici (questi sì, pienamente corrispondenti al vero) utilizzati anche per scoraggiare possibili rese dei nostri soldati in battaglia.
Nel mese di aprile del 1916 “Lo Stendardo” diede risalto alla visita del Vescovo di Cuneo, monsignor Moriondo, al forte di Vinadio, dov’erano detenuti in quel momento circa 300 austriaci: “I prigionieri godono tutti di ottima salute, e si sono apertamente dichiarati soddisfatti dei trattamenti che ricevono”, concludeva l’articolo. Un nuovo rocambolesco tentativo di fuga dal forte della valle Stura si verificò poi a luglio dello stesso anno: il giorno 6 cinque prigionieri riuscirono a scappare, imboccando il vallone di Neraissa e arrivando a nascondersi alla testata della Val d’Arma passando per il Colle del Mulo. Lì furono però visti da alcune persone, che ne segnalarono la presenza: in tre furono immediatamente catturati da Alpini e Carabinieri. Gli altri due furono invece arrestati alcuni giorni più tardi: erano riusciti ad arrivare fino a Prali, in val Germanasca, dove però erano stati notati per il loro aspetto trasandato, segnato dalle faticose peregrinazioni successive alla fuga da Vinadio. All’inizio di agosto del 1917 un altro tentativo di fuga riportato dai giornali locali: in cinque riuscirono a fuoriuscire dalla fortificazione tramite una feritoia, per poi essere ripresi quasi immediatamente dalle guardie. Quattro di loro si arresero senza opporre resistenza, il quinto si gettò nel fiume nel tentativo di sfuggire alla cattura. Sopraffatto dalla piena del fiume, sarebbe poi stato ritrovato senza vita all’altezza di Aisone. Episodi di questo genere, insomma, erano all’ordine del giorno e venivano puntualmente riportati - talvolta con i tempi e le modalità imposti dalla censura - dalle testate locali. Quella relativa al trattamento dei prigionieri fu una delle questioni principali durante la Grande Guerra: in teoria i loro diritti dovevano essere garantiti dalla Seconda Convenzione dell'Aja, un accordo entrato in vigore poco prima del 1914 e firmato da 44 Stati. Nella pratica però le cose andarono diversamente. Nel documento, ad esempio, venne stabilito come i prigionieri dovessero ricevere la stessa razione di cibo di quella destinata ai soldati dell'esercito che li aveva catturati. Le contingenze del momento portarono poi alla sistematica violazione di questo diritto: col passare del tempo i prigionieri aumentavano e, parallelamente, le risorse diminuivano. Coloro che furono catturati ebbero quindi un trattamento decisamente peggiore rispetto a quanto era stato deciso pochi anni prima. Secondo la relazione italiana gli austriaci morti durante la detenzione in Italia nel corso della Prima Guerra Mondiale furono 40.917.
Anche al termine del conflitto la stampa cuneese non perse però occasione per ribadire la grande “ospitalità” concessa ai prigionieri austriaci, anche a quelli rimasti in provincia dopo essere stati liberati. L’11 gennaio 1919, per esempio, “La Sentinella delle Alpi” riportò di un prigioniero che balbettava alcune parole in italiano e aveva riferito: “Quando tornare a Vienna dire molto bene di Cuneo”. Quello come campo di prigionia, ad ogni modo, non fu l’unico utilizzo del Forte Albertino di Vinadio. Dalla fine dell’Ottocento al 1943 il Forte ospitò infatti una colombaia militare, una delle tante disseminate sul territorio italiano. Oggi gli ambienti che ospitarono questa struttura sono però difficilmente riconoscibili a seguito della destinazione degli stessi ad altro uso. La storia militare del Forte si concluse il 25 aprile del 1945, quando le truppe tedesche in ritirata minarono la struttura in vari punti. L’impegno della popolazione e cause fortuite riuscirono fortunatamente ad impedirne la totale devastazione, fatta eccezione per la polveriera centrale che venne ridotta a un cumulo di macerie. Negli anni successivi le macerie vennero utilizzate per arginare in vari punti il fiume Stura. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il Forte Albertino di Vinadio venne dismesso.
Andrea Dalmasso
VINADIO Vinadio - Storia - forte albertino