Quando sulla Bisalta c’era l’Eldorado dell’uranio
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta furono avviate le miniere a Peveragno e in altri centri. Con conseguenze allora inimmaginabili: molti operai moriranno per l’esposizione a radon e polveriPubblicato in origine sul numero del 28 aprile del settimanale Cuneodice: ogni giovedì in edicola
Ben pochi ormai ne sono consapevoli, tra coloro che all’ombra della Bisalta si svegliano ogni giorno. Ma ci fu un tempo in cui la beneamata “Bisimauda” dei cuneesi fu al centro dei sogni di gloria di industriali, governanti e scienziati che cercavano nel cuore della montagna la sospirata “via italiana all’atomo”.
Tra il 1949 e il 1961, in particolare, si cercò con ogni mezzo di avviare lo sfruttamento su larga scala di una falda uranifera, il cui valore si pensava potesse “finanche paragonarsi a quella delle miniere del Katanga, nel Congo Belga, che sono fra le tre maggiori al mondo”. Lo scrive un articolo pubblicato il 2 gennaio 1955 dalla Gazzetta del Popolo, nel cui titolo si annuncia l’evento atteso da tempo: “Estratto l’uranio nelle valli cuneesi”. Erano già in corso da sei anni gli scavi portati avanti dalla Montecatini, colosso dell’industria chimico-mineraria più tardi divenuta Montedison, oltre a quelli della Società Mineraria e Chimica per l’Uranio che faceva base a Mondovì e operava sul Bric Colmè a San Giacomo di Roburent e in altri luoghi tra le valli Pesio, Corsaglia e Casotto.
Ma la storia del “minerale abbagliante” nella Granda, in realtà, era cominciata molti decenni prima coinvolgendo nientemeno che Marie Curie, la celebre scopritrice del radio e del polonio e pioniera degli studi sulle sostanze radioattive. Il 15 e 16 agosto 1918 la scienziata francese, due volte premio Nobel, si recò a Lurisia per un sopralluogo presso la locale cava di autunite, accompagnata dal professor Vito Volterra che pochi anni dopo fonderà il CNR. All’epoca sono soprattutto i potenziali utilizzi medici del radium a strabiliare le genti: al minerale si attribuiscono virtù terapeutiche quasi miracolose nel contrasto a patologie e malanni d’ogni sorta. Negli Stati Uniti un certo R.W. Thomas commercializza il Revigator, una brocca per l’acqua contenente materiale radioattivo. In Italia si vende l’Argo, rimedio contro l’artrite, l’uricemia e la gotta “dalla tollerabilità perfetta e con nessuna controindicazione”, a detta della casa farmaceutica.
È ancora in questo fiducioso e un po’ ingenuo clima di attesa delle “magnifiche sorti e progressive” che nei primi anni del secondo dopoguerra si scatena la febbre dell’uranio sulle Alpi Marittime. A favorirlo però è soprattutto la ricerca sull’energia nucleare, ormai avviata anche in Italia dove negli anni Cinquanta si elaborano i presupposti per la realizzazione di un tipo assolutamente nuovo di reattore a fissione, il CIRENE. A detta del professor Felice Ippolito, mentore della ricerca nucleare italiana, i depositi uraniferi più interessanti nella penisola sono proprio quelli tra Cuneese e Monregalese, dove si pensa di poter estrarre circa 300 tonnellate di uranio. Dal 1946 tre società stanno operando nella Granda: la Società delle Miniere di Lurisia, la Montecatini e la Mineraria e Chimica per l’Uranio. Nel 1949 la Gazzetta del Popolo scrive che “San Giovenale, Peveragno, anche Chiusa Pesio sembrano paesi di pionieri dall’anno scorso, da quando la radio diede l’annuncio che erano state segnalate presenze di uranio e torio sulle falde della Bisalta”. A sentire la gente del posto, raccontano i cronisti, le virtù “radioattive” delle acque e della terra sono note da tempo: “Il paese si chiama Pe ‘uragn perché l’è fait ‘d pera d’uragn, cioè pietra d’uranio” si sente raccontare. I raccoglitori di funghi e castagne, scrive il cronista Ernesto Caballo, “serbano i segreti, dicono soltanto che un tal favoloso luccicore l’avevano già notato nelle notti di luna, in certi anfratti”.
Nel settembre 1949 un sensazionale annuncio scuote l’opinione pubblica, alla notizia che l’Unione Sovietica ha testato la prima bomba atomica. Poco più di un mese prima, il 10 agosto, una quindicina di operai hanno iniziato a scavare le gallerie nel vallone peveragnese del Rio Freddo, ai piedi della Bisalta. Li guida un direttore dei lavori trasferito dalla Puglia, l’ingegner Guido Ferrari. Ai primi lavoratori si uniranno, nel 1953, una ventina di minatori esperti trasferiti dalle Marche. Sono i “superstiti” degli 860 licenziamenti che la Montecatini aveva imposto nel bacino solfifero di Cabernardi, dopo una dura lotta sindacale culminata con l’occupazione delle gallerie. A questi minatori vengono offerti forti incentivi per il trasferimento in Piemonte, più una retribuzione a cottimo che suscita il risentimento dei peveragnesi: “Siete venuti a rubare il lavoro” sibilano i locali, quasi tutti contadini poveri che avevano visto nella miniera un miraggio di riscatto sociale. A poco a poco, però, le diffidenze verso quei forestieri “della bassa Italia” lasceranno il posto a un sincero rispetto per la loro professionalità. A metà anni Cinquanta l’impianto di Castellar di Peveragno conta 32 operai occupati su sei cantieri, sotto la direzione di Vittorio Dai Prà. La Montecatini ha fama di azienda paternalistica e seria che non effettua assunzioni clientelari.
L’esperienza di lavori in sotterranei negli ambienti radioattivi è ancora molto scarsa e poco o nulla si conosce riguardo alle misure di radioprotezione e ai rischi. Qualcosa comunque viene realizzato, in particolare su impulso dell’ingegner Giulio Rostan, direttore generale del settore minerario della Montecatini. È lui a far edificare la baracca, gli spogliatoi e le docce e ad imporre un percorso obbligato per il minatore a fine turno - mirato a far sì che nessun residuo radioattivo raggiunga abitazioni e famiglie. Per i lavoratori queste si riveleranno, purtroppo, precauzioni insufficienti. Ma per il momento nessuno sembra curarsene e la “febbre dell’uranio” contagia tutti: “Con l’uranio delle valli cuneesi sarà costruito il primo reattore atomico italiano” titola trionfale La Gazzetta del Popolo, il giorno dopo l’annuncio delle prime estrazioni. Certo, per quell’impresa occorrono nove tonnellate di materiale radioattivo, mentre dal Cuneese ne sono stati inviati all’incirca 45 chili al Centro italiano per gli studi atomici. Tuttavia già si dibatte se Cuneo o Mondovì dovrà essere “la capitale dell’uranio”. Perfino il radiocorriere Rai dedica un’inchiesta a Peveragno, dove “tutto parla di uranio quando si vuol fare un’ottima réclame che attragga i turisti; è nata anche una specialità per i buongustai: i «funghi all’uranio», davvero squisiti”. La prima edizione della Sagra della fragola, nel 1957, richiama il ruolo dei “raggi cosmici concentrati dal sole sulle immacolate nevi della Bisalta e filtrati nelle sue viscere uranifere” nella creazione della fragola peurania. Nella vicina Boves, per non essere da meno, si indice il concorso di Miss Urania, mentre nelle vallate si pensa a come valorizzare al meglio le varie “fontane della salute” radioattive.
Il sogno si trasforma in un incubo quando tra i veterani della miniera si cominciano a contare i morti. Il primo decesso, quello del 59enne Giacomo Pellegrino, avviene nell’agosto 1956. Viene attribuito alle conseguenze di un brutto infortunio, mentre un anno dopo si chiama in causa la silicosi per spiegare la morte di Sebastiano Giubergia, 55 anni. Quando però a morire è il trentenne Giuseppe Marro le cose cambiano: “Aveva paura della polvere, tanto che rafforzava la capacità filtrante della mascherina, introducendo all’interno un cencio di tela” ricorderà la moglie. La sua agonia è straziante, come sarà per molti altri negli anni a venire. Un medico rievocherà il caso con queste parole: “Cercavamo una spiegazione (il cottimo, la fatica oltre i limiti, l’inalazione a pieni polmoni, forse senza maschera, l’alimentazione carente) non conoscendo l’effetto di potenziamento del radon sulla silicosi”. “Sinceramente facevo tutto quello che era sconsigliato dalle regole pur di guadagnare” dirà invece molto tempo dopo uno dei lavoratori, Nello Cerquettini, l’ultimo minatore della Bisalta e una fonte preziosa per il libro “Quelli dell’Uranio” di Giuseppe e Paulo Rachino, che ha raccontato l’epopea di quei pionieri della montagna: “Ad ogni colpo di mina o di fioretto si levava una puzza insopportabile di cane bagnato e di ossi bruciati: l’odore dell’inferno”.
La miniera della Montecatini chiude i battenti nel 1961, dopo che la società ammette di non poter avviare uno sfruttamento industriale dei giacimenti “data la minima percentuale del contenuto metallico”. Quando a fine anni Settanta l’Agip riprenderà le prospezioni sulle Alpi l’atmosfera è ormai molto cambiata: si registrano perfino scritte antinucleariste sui muri, un sabotaggio a un macchinario e minacce ai lavoratori dell’impresa appaltatrice, tutte azioni da cui prende le distanze il pur critico Gruppo di Ricerca sulle Miniere di Uranio. Anche in questo caso tutto finisce nel nulla. La natura nei decenni successivi si è ripresa i suoi spazi, modificando la fisionomia della val Fredda e sigillando, insieme agli ingressi della miniera, il sogno impossibile dell’Eldorado nucleare alle pendici della Bisalta.
Andrea Cascioli
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