Un viaggio nel Piemonte che non c’è più: ecco le meraviglie che abbiamo perso
Dalla cittadella di Cuneo al forte di Demonte, dal castello di Verzuolo all’antico duomo di Mondovì. Un libro di Simone Caldano fa da guida fra i luoghi scomparsiAnche il Piemonte ha le sue meraviglie perdute, simili al monastero che ne Il nome della rosa viene divorato dalle fiamme insieme alla sua leggendaria biblioteca. Solo letteratura, in quel caso, sebbene Umberto Eco abbia tratto qualche ispirazione dalla Sacra di San Michele.
Altri luoghi, tra quelli del tutto scomparsi e quelli rovinati fino a divenire irriconoscibili, punteggiano le antiche mappe della nostra regione, disegnando una geografia dell’invisibile. Ne parla lo storico dell’architettura Simone Caldano, autore de Il Piemonte che non c’è più per le Edizioni del Capricorno. Esperto studioso delle architetture religiose medievali tra Piemonte e Liguria, il novarese Caldano ha selezionato venticinque edifici scomparsi tracciandone in sintesi le vicende, con l’ausilio di un ricco apparato iconografico. Ci sono forti e castelli, ma anche cattedrali, abbazie, casini di caccia e “luoghi di delizie” (come venivano chiamate le dimore nobiliari destinate alle villeggiature), perfino un esempio di architettura industriale novecentesca, la ex Snia Viscosa di Torino. L’autore del volume vagheggia un vero e proprio “turismo dell’inesistente”: “È evidente che questo libro non può essere un invito alla visita. Ma sarebbe bello se ci fossero pannelli a ricordo di questi monumenti scomparsi, alcuni davvero sorprendenti”.
Il libro è stato presentato in primavera dall’autore al Museo diocesano di Cuneo, insieme alla direttrice Laura Marino: “Questa ‘guida’ è un grande esercizio di immaginazione” ha ricordato lei, menzionando le innumerevoli testimonianze di una città “sommersa” che possiamo trovare, anche vicino a noi. Dall’antica cittadella sul pizzo di Cuneo alla scomparsa chiesa di Santa Maria della Pieve che dà tuttora il suo nome a una strada, via della Pieve, passando per le costruzioni medievali che lasciarono il posto a piazza Virginio e ad altre piazze del centro storico attuale. Caldano ha selezionato solo luoghi “fantasma” e non rovine: “Mi sarebbe sembrato offensivo per i colleghi archeologi, menzionare contesti di scavo archeologico fra i luoghi che non esistono più” spiega. L’unica eccezione è ad Alba, con la chiesa di Santa Maria del Ponte.
Questa chiesa parrocchiale sorgeva grossomodo a metà strada tra l’imbocco dell’attuale via Cavour e l’argine del Tanaro, in prossimità di un ponte che attraversava il fiume. Non è chiaro in quali circostanze sia scomparsa, sta di fatto che dopo il 1386 non se ne trovano più tracce per quattrocento anni. Nel 1788, quando il Comune intraprende lavori di scavo sulla riva destra del Tanaro, affiorano testimonianze menzionate dall’abate Carlo Benevelli: monete, alcune sculture tra cui la chiave di una volta, una protome, una punta di lancia, una lamina di rame con l’iscrizione “Ecce Agnus Dei qui tollit peccata mundi”. Da un documento del 1196 sappiamo che Santa Maria doveva avere anche un chiostro e che era una chiesa betlemita, cioè soggetta all’autorità del vescovo di Betlemme. Nella diocesi di Alba ce n’erano ben quattro, disseminate tra Guarene, Farigliano, Monesiglio e appunto il “burgus de ultra Tanagrum”. Poco o nulla si sa di come si articolasse la struttura a una navata e quali decorazioni avesse, ma la sua presenza, nota lo storico, aggiunge un tassello al panorama dell’architettura medievale della Langa.
Quando Mondovì rivaleggiava con Torino: la cittadella e il duomo scomparso
Di chiese sparite, in questo caso proprio perché demolite dall’autorità secolare, si parla in riferimento alla costruzione della cittadella di Mondovì, promossa nel 1573 dal duca Emanuele Filiberto di Savoia. Figura chiave nella storia del casato, cui si deve lo spostamento della capitale da Chambery a Torino, il duca “Testa di ferro” si preoccupò con grande lungimiranza di difendere il Piemonte con fortezze “alla moderna”, cioè adeguate ai tiri delle nuove armi da fuoco. Poco male, si troverà a pensare, se per farlo era necessario spianare addirittura una cattedrale, il che è appunto quel che successe sulla collina di Piazza.
“Vista la vicinanza alla Francia e al mare, - sottolinea Caldano - non pochi valutavano la possibilità che la capitale diventasse proprio Mondovì e non Torino, come è poi accaduto”. La cattedrale di San Donato, uno dei pochi edifici rinascimentali in Piemonte, aveva già preso il posto di una preesistente fondazione religiosa, attestata per la prima volta nel 1207: il cantiere avviato a fine Quattrocento va di pari passo con quello coevo per la cattedrale di Torino e non è azzardato parlare - già allora - di una “competizione” tra le due città, che si traduce in un progetto molto ambizioso. Con l’erezione della cittadella, ciascuna delle sue due navate minori verrà inglobata in una caserma, mentre la navata centrale rimane in uno spazio aperto. L’abside sopravviverà fino al XIX secolo, prima di essere demolito.
Ma non è solo San Donato a interferire con i piani del duca. In un “valzer” di ordini religiosi, mentre la sede del duomo viene spostata nella chiesa di San Francesco, i francescani finiscono relegati nella più piccola chiesa di Sant’Andrea e i predicatori domenicani si trasferiscono da San Domenico a Carassone, in San Giovanni di Lupazanio. Il papa Gregorio XIII, a cui nessuno aveva chiesto il permesso, non ne fu affatto contento, sebbene Emanuele Filiberto avesse cercato di blandirlo, affermando che la cittadella sarebbe stato “riparo contro gli eretici”. Solo quando il pontefice gli fece notare che distruggere le chiese era appunto ciò a cui gli eretici si dedicavano in Germania e in Inghilterra, il duca scoprì le carte con franchezza: “Io non distruggo il poco né male che per edificare il molto e meglio. Trovomi qui vicino al pericolo e ho da essere il primo ai colpi, onde mi conviene stare all’erta et in buona custodia, e per me et per l’Italia tutta”. E il “nostro” San Donato? Sorgerà nel Settecento, per opera di Francesco Gallo.
La (quasi) imprendibile cittadella di Cuneo, distrutta da Napoleone
Al duca “Testa di Ferro”, molto impressionato dal valore dimostrato dai cuneesi nel 1557, si deve il titolo di città attribuito all’attuale capoluogo della Granda “in temporalibus”, cioè per quanto attiene alle cose temporali: Cuneo, come sappiamo, acquisirà dignità vescovile solo nell’Ottocento. Sotto Emanuele Filiberto inizia la costruzione della cittadella, di cui non conosciamo il progettista: si può supporre che Francesco Paciotto, artefice della cittadella di Torino, non ne sia stato estraneo.
Cosa accada dopo lo vediamo nelle due tavole dedicate a Cuneo dal Theatrum Sabaudiae, la straordinaria raccolta di “cartoline” dai domini sabaudi promossa da Carlo Emanuele II e stampata nel 1682: sappiamo che sul pizzo c’erano ancora strutture medievali fortificate, con il loro coronamento merlato, ma anche al di fuori del tratto murato c’era un coronamento più antico che fu inglobato nella fortezza “alla moderna”. Cuneo viene dotata di diversi bastioni a tenaglia, nella maggior parte dei casi denominati in base alla chiesa più vicina: Santa Maria della Pieve, Sant’Ambrogio, San Giacomo. Solo due, il bastione verso Quaranta e il bastione verso l’Olmo, non prendono nome da una chiesa.
In corrispondenza del “rivasso”, cioè della riva verso il Gesso, non era stato necessario costruire le mura: la difesa naturale era più che sufficiente, trattandosi di un precipizio ripido. Nei sei assedi che Cuneo sosterrà dopo la costruzione delle mura solo in uno, quello del 1641, i difensori dovettero accettare la vittoria degli assedianti. Fra il 1800 e il 1801, durante la dominazione napoleonica, la cittadella viene abbattuta: da allora in poi, non si presentò più la necessità di fortificare la città.
Il forte di Demonte, ultima “barriera” della valle Stura
Il “piccolo corso” è protagonista in negativo anche della perdita del forte di Demonte, che oggi conosciamo solo per la polemica che vede i suoi resti sotterranei come “impedimento” rispetto alla progettata variante stradale. Già nel Medioevo il paese era difeso da un castello retto dalla famiglia Bolleris, una dinastia legata agli Angiò che nel 1259 avevano conquistato Cuneo e il suo territorio.
L’architetto centallese Ercole Negro di Sanfront, incaricato da Carlo Emanuele I, lo rappresenta in una tavola nel 1590. Si decide in quegli anni di approntare una fortificazione robusta a Demonte, per sbarrare la strada ai francesi: dopo Sanfront, se ne occuperà l’architetto milanese Gabriele Busca. Il “forte piccolo” sorgeva sulla sommità del monte Podio, il “forte grande” a metà e il “forte novo” in basso, quasi a pelo dello Stura: nel 1726 una perizia mostra che le muraglie del forte sono ormai fatiscenti. Per rinnovarle viene interpellato Francesco Bertola, progettista della cittadella di Alessandria. Gli invasori francesi, in ritirata dopo la sconfitta di Cuneo nel 1744, cercheranno poi di distruggerlo “per mezzo di 30 mine”: l’esercito sabaudo riesce a disinnescarne almeno una ventina. Un successivo intervento di rinforzo ha vita breve, perché Napoleone ordina la distruzione del forte nel 1796, dopo l’armistizio di Cherasco: nelle stesse circostanze sparisce il forte della Brunetta a Susa. Rimane oggi molto poco delle antiche fortificazioni, di cui si scorgono un robusto tenaglione verso lo Stura e poco altro.
Il castello di Verzuolo, tesoro perduto dei marchesi di Saluzzo
Il Theatrum Sabaudiae, di cui abbiamo parlato a proposito della cittadella di Cuneo, ci regala anche una raffigurazione del castello di Verzuolo. Un’idea della meraviglia di questa fortificazione possiamo averla attraverso una fotografia scattata tra fine XIX e inizio XX secolo, precedente al crollo della torre di sudest nel 1916. Oltre alla mutilazione della costruzione, con il crollo andarono perse più di 16mila lettere databili tra Cinquecento e Ottocento. Documenti preziosissimi per la storia del marchesato di Saluzzo, che vennero buttati insieme a molte altre testimonianze inestimabili. Nel 1937-38 fu distrutta la facciata più importante: uno scempio che eliminò anche elementi architettonici in marmo, una fontana e i portali.
Nel periodo di massimo splendore, tra Quattrocento e Cinquecento, la dimora era stata una delle più belle del Saluzzese, sotto i marchesi Ludovico I e Ludovico II: quest’ultimo aveva scelto di persona le maestranze adibite al taglio della pietra, per le parti più importanti della decorazione. Nel Seicento e Settecento viene trasformato da fortificazione a luogo di dimora: se ne occupa soprattutto l’abate Francesco Della Manta, figura chiave nelle relazioni tra i Savoia e la Francia. Gli interventi barocchi, tuttavia, non intaccarono l’impianto voluto da Ludovico II. A luglio 2022 c’è stato un passaggio di proprietà: il nuovo proprietario vuole farne un resort ed è verosimile che avrà comunque un destino migliore rispetto all’inizio del Novecento.
Tutte le immagini sono tratte dal libro e riprodotte per gentile concessione dell’autore
Andrea Cascioli
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