La lingua Piemontese destinata a scomparire? "Un male che viene da lontano"
Le riflessioni di un lettore dopo l'articolo pubblicato in occasione della Giornata Nazionale del DialettoRiceviamo e pubblichiamo.
Gentile Direttore,
Ho letto con sommo piacere l’articolo apparso il 17 gennaio sul Suo quotidiano dal titolo più che eloquente: "Serve la giornata nazionale del dialetto per renderci consapevoli che nessuno parla più piemontese". Ha ragione, è una delle molteplici realtà dei nostri tempi devastanti. L’articolista ha messo il dito sulla piaga, ma non credo che servirebbe a porre fine a questa diaspora linguistica: il piemontese, e non solo, è destinato a scomparire a breve, visto le derive dei proponenti della distruzioni delle lingue, non solo minoritarie ma, addirittura nazionali. Il male viene da lontano. Bisogna risalire al tempo dell’Unità del Paese (1861) quando, nel tentativo di “fare gli italiani” (mai riuscito), si pensò a fare una lingua nazionale ufficiale e si iniziò il boicottare tutte le parlate locali e regionali, fra questi anche il piemontese, nonostante fosse la lingua dei Savoia da secoli. Quanti sono i piemontesi al corrente che ai primi dell'800 il medico cuneese Maurizio Pipino compilò per Sua altezza reale Maria Adelaide Clotilde di Borbone, Principessa di Piemonte, che volle apprendere la lingua dei suoi sudditi? Eppure con il piemontese si fece l’Italia.
Ma tralasciamo queste domande inutili, per chi non vuol sentire. Ma una domanda è lecito farsi: chi furono i colpevoli di questa deriva linguistica, che scatenò in buona parte delle popolazioni piemontesi un condiscendente ripudio se non la vergogna di parlare la lingua dei padri? Con l’arrivo dei fratelli meridionali che si riversarono al nord Italia, alla ricerca di ciò che mancava loro al sud, sono stati quei piemontesi ”falsi e cortesi” (così venivamo etichettati al meridione), illudendosi di non sfigurare in confronto dei nuovi venuti. Le nuove famiglie che si stavano formando fra gli autoctoni e i nuovi piemontesi, al fine di potersi capire, dovevano per forza di cose cambiare idioma, seppure, dalla parte dei più anziani, la maggioranza rimanevano avvinti alle tradizioni e usanze che si tramandavano da generazioni.
Se poi vogliamo aggiungere che il colpo di grazia lo diedero non solo la scuola (salvo rare occasioni), ma sopratutto le nuove tecnologie usate dai mezzi di informazione: telefoni, radio, TV per finire ai linguaggi moderni. Il discorso sarebbe lungo ma lo spazio è tiranno.
La nuova moda “ëd parlé pì fin, o meno grossè” pervase un larga maggioranza delle popolazioni piemontesi. A tutto ciò dobbiamo aggiungere il cambiamento radicale che ha colpito le famiglie, con il disciogliere dei nuclei famigliari, un tempo numerosi, dove gli anziani facevano scuola ai piccoli parlando loro la lingua dei padri, ognuno nelle abbondanti varianti locali, vera forma di “libertà”, quella che stanno tentando di rapinarci in nome di fantomatici “diritti” sostituenti dei sorpassati “delitti”. Su questo tema sarebbe utile, sempre se possibile che il suo quotidiano potesse dedicare, anche su questo argomento, uno scambio di opinioni fra i lettori. Cosa ne dice? La ringrazio e cordialmente La saluto.
Adriano Cavallo
Cuneo
Redazione
CUNEO piemontese