Obiettivo Rossosc: 77 anni fa la tragedia della Divisione Cuneense
Il 14 gennaio 1943 i sovietici lanciarono l’offensiva contro il fronte del Don. Alla vigilia della ricorrenza è morto l’ultimo reduce saluzzese, il 97enne Domenico Dellerba“Il 20 gennaio, fra le isbe sparse il gruppo Mondovì schiera i suoi pezzi. Battisti, il comandante della divisione, sta radunando tutti i battaglioni in una boscaglia per farli muovere all’attacco. Partono i battaglioni alpini. Muoiono tutti gli alpini. Vedo Battisti che corre disperato fra la nostra batteria, ha il cappello in mano e grida ‘poveri alpini, muoiono tutti, i miei alpini stanno andando’”: è la voce di Giovanni Battista Ranieri, classe 1918, una tra quelle che Nuto Revelli raccoglierà ne ‘La strada del Davai’ per raccontare il disastro della Divisione Cuneense fra le pianure gelate della Russia.
La tragedia della ‘Divisione martire’ cominciava proprio in questi giorni, nell’inverno lontano di settantasette anni fa. Con l’offensiva ‘Ostrogozsk-Rossosc’, lanciata il 14 gennaio 1943, i sovietici si proponevano di spazzare via le forze dell’Asse schierate lungo la linea del Don. A Rossosc si trovava il comando del corpo d’armata alpino dell’ARMIR, fino ad allora poco coinvolto negli attacchi.
La prima ‘spallata’ era stata assestata dal mattino del 19 novembre precedente al settore della III Armata romena, ritiratasi in fretta lungo il fiume Tschir. La debolezza della nuova linea formata insieme ad alcune unità tedesche, tuttavia, aveva impensierito i comandi dell’VIII Armata italiana fin dal primo momento: solo il fatto che i russi fossero più preoccupati di isolare la VI Armata tedesca a Stalingrado infatti aveva rallentato le operazioni nel settore meridionale del fronte.
Queste ultime ripresero con rinnovato vigore all’alba dell’11 dicembre, investendo cinque giorni dopo il settore tenuto dalle divisioni Pasubio, Ravenna e Cosseria: contro di esse furono lanciate dal nemico 10 divisioni di fanteria, 13 brigate corazzate, 4 brigate motorizzate, 2 reggimenti corazzati.
Veniva alla luce un problema drammatico che solo la ‘stasi operativa’ del periodo precedente aveva occultato, quello della scarsità di mezzi su un fronte esteso per centinaia di chilometri. Perfino il generale Giovanni Messe, comandante del primo corpo di spedizione (CSIR) fino al novembre 1942, era consapevole dei limiti di un’armata alpina i cui mezzi, 4800 muli e 1600 autocarri, sarebbero stati insufficienti anche in spazi operativi più ristretti: “Mancava quasi del tutto l’armamento anticarro, - annota Gianni Oliva nella sua ‘Storia degli alpini’ - l’artiglieria contraerea era inesistente, i mezzi di trasmissione, costituiti in relazione alle esigenze di impiego in alta montagna, avevano una potenza limitata e non riuscivano a stabilire collegamenti sulle grandi distanze”.
Inadeguati gli armamenti, il fucile modello ’91 “tanto glorioso quanto antiquato” e il fucile mitragliatore Breda 30 che diveniva inutilizzabile ai primi freddi, e soprattutto il vestiario limitato alla divisa grigioverde di lana autarchica e agli scarponcelli chiodati, resi tristemente famosi dai racconti dei sopravvissuti. E ancora, non furono forniti spazzaneve, né mezzi cingolati, slitte e lubrificanti antigelo: i materiali di equipaggiamento, scriverà Messe nel suo ‘La guerra al fronte russo’, erano “sostanzialmente non diversi da quelli distribuiti alle truppe in partenza per l’Africa, gli stessi che nel giugno 1940 avevano procurato duemila congelati in dieci giorni sulle Alpi piemontesi”.
Alle penose insufficienze organizzative, del resto, si aggiungevano fin da prima dell’arrivo dei nostri alpini una serie di errori tattici che portarono alla più tragica delle disfatte. Hitler, convinto di poter piegare l’Unione Sovietica in otto settimane di avanzata, aveva in un primo tempo rifiutato i rinforzi che Mussolini gli offriva fin dall’inizio dell’invasione: il duce era ansioso di rifarsi degli insuccessi in Africa e in Grecia e allo stesso tempo di allargare la sua influenza nel conflitto buttando sul piatto l’unica merce di scambio che gli italiani potessero vantare con la Germania, ovvero l’ampia disponibilità di uomini.
Il Corpo di Spedizione Italiana in Russia (CSIR) partì comunque nel luglio 1941 con 62mila uomini, partecipando alla battaglia del Dniepr e all’occupazione del bacino industriale del Donez. Dopo l’inverno successivo le difficoltà dell’avanzata tedesca vennero a galla: la strategia di attaccare per linee divergenti lungo tre direttrici si era rivelata un fallimento di fronte alla resistenza di Mosca e Leningrado. Fu a questo punto che i tedeschi si risolsero a chiedere agli italiani l’apporto di truppe alpine che fino all’ultimo si pensava di dislocare sul Caucaso ma che a causa dell’emergenza venutasi a creare vennero infine destinate al fronte del Don.
Qui, in un ambiente pianeggiante e del tutto inadatto alla loro preparazione, giunsero nell’estate del 1942 i 57mila alpini dell’ARMIR inquadrati in tre divisioni, la Tridentina, la Julia e la Cuneense, e in diciotto battaglioni. Saranno loro a pagare il prezzo più alto della disfatta, dopo aver assolto fino all’annientamento totale il compito di coprire la ritirata del XXIV Corpo d’armata tedesco: solo il 17 gennaio, dopo lo sfondamento delle linee tenute dagli ungheresi e l’accerchiamento delle unità, si ordinerà di ripiegare.
La Divisione Cuneense del generale Emilio Battisti perderà i battaglioni Saluzzo e Borgo San Dalmazzo nella battaglia di Nowo Postojalowka il giorno 20, per poi scindersi in due colonne. Una, con il comando di divisione e i resti del 2° reggimento, viene catturata il 27 a Roshdestweno. L’altra, con il 1° reggimento, è distrutta il giorno dopo a Valuiki. Si contano 13080 caduti e dispersi e 2130 feriti e congelati nelle truppe, 390 morti e 50 feriti tra gli ufficiali: i superstiti sono circa 1300.
Uno di loro, il 97enne Domenico Dellerba, è morto nella giornata di ieri, domenica 12 gennaio, all’età di 97 anni. Dopo la scomparsa di Natale Giletta era l’ultimo reduce di Russia saluzzese. Partì da Castellar all’età di 19 anni come autista nel battaglione Saluzzo, finendo prigioniero dei tedeschi dopo l’8 settembre e poi dei russi. Iscritto all’Ana Monviso nella sezione valle Bronda, Dellerba ha ricevuto la medaglia al merito di guerra, la medaglia di ghiaccio e la medaglia d’onore, continuando a lavorare come agricoltore a Castellar e poi a San Lazzaro di Saluzzo.
Andrea Cascioli
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