Ora Canale vuole saldare il suo debito con l’adolescente uccisa nel 1969
A mezzo secolo dalla morte della tredicenne Maria Teresa Novara, rapita e segregata in una cascina, c’è chi propone di intitolarle una via[questa è la seconda parte di uno speciale in due puntate sul caso Maria Teresa Novara. Clicca qui per leggere la precedente]
Tra chi in questi cinquant’anni ha tenuto viva l’attenzione attorno al caso di Maria Teresa Novara c’è Marilina Veca, archivista romana, autrice dei libri ‘La testa dell’idra’ e ‘Anatomia di un delitto’, quest’ultimo scritto insieme a Stefano Cattaneo. C’erano anche loro, venerdì 2 agosto, all’incontro che la Pro Loco di Canale ha organizzato per chiudere i conti con una vicenda che in paese continua a far male.
La tredicenne di Cantarana, in provincia di Asti, fu rapita nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1968 nella casa degli zii a Villafranca. Sarà ritrovata il 13 agosto successivo, ormai priva di vita, in una cascina nota come la Barbisa, nei dintorni di Canale: era viva fino ad almeno due giorni prima, ma qualcuno non volle, o non seppe fare in modo, che venisse ritrovata in tempo.
Le indagini sulla scomparsa di Maria Teresa restituiscono il ritratto di un’Italia sospesa tra un passato che non tramonta e una modernità che tarda ad arrivare. Lo si nota perfino sfogliando i giornali, dove le foto dei volti stanchi di Mario Novara e di sua moglie Angela, due contadini che sembrano molto più vecchi della loro età, si affiancano ai titoli sull’insediamento di Nixon, la morte di Jan Palach, la visita della vedova di Martin Luther King in Italia, le occupazioni studentesche nelle università.
Il caso, sostiene Marilina Veca, “è paradigmatico di molte cose: dell’omertà, in primo luogo, quella di una comunità che copre se stessa e che si autoassolve. Povera, femmina, figlia di contadini, Maria Teresa è una creatura a cui viene tolta ogni cosa”. Perfino nella cronaca del tempo affiorano giudizi insinuanti sulla condotta dell’adolescente, anche perché il giallo di Villafranca diventa presto qualcosa di molto più grande della vicenda in sé. Cercando informazioni sulla ragazzina in paese, i carabinieri arrestano due ventenni sardi che avevano avuto rapporti con due coetanee di Maria Teresa, provocando uno scandalo. A Torino, viene alla luce un giro di prostituzione minorile: la Mobile irrompe in un appartamento di corso Stati Uniti e trova un paio di squillo. Una ha appena 13 anni, l’età di Maria Teresa. Ma ancora una volta, non è lei. E non è lei nemmeno la quattordicenne che dice di essere la giovane scomparsa e che in realtà è una torinese scappata di casa, e rifugiatasi in una cantina di via Po insieme a “un gruppo di capelloni”.
Il 22 febbraio sembra arrivare la svolta. Finisce in carcere il capo cantoniere di Cantarana, un 36enne padre di due figli. In realtà la sola colpa dell’uomo, che risulterà del tutto estraneo ai fatti, è quella di aver detto “dove la metteranno a dormire?”, apprendendo che Maria Teresa sarebbe andata ad abitare sopra alla tabaccheria dei Borgnino: nel clima di sospetto che regna in quei giorni, tanto basta a fare di lui un indiziato. L’ultimo colpo di coda dell’indagine arriva a maggio, con una nuova missiva di quattro pagine consegnata ai genitori di Maria Teresa: “Sto bene, mangio, bevo, vado al cinema, mi diverto” scrive colei che afferma di essere la loro figlia. Per i periti può trattarsi di una lettera autentica, ma i genitori non ci credono e pensano ormai che il peggio sia avvenuto. Si sbagliano, tutti.
Il destino di Maria Teresa, infatti, si compirà il 5 agosto, insieme a quello del suo carnefice. Bartolomeo Calleri quel giorno è a Torino insieme all’amico Luciano Rosso, a bordo di un Fiat 615 targato Cn. Quando in corso Regio Parco una pattuglia di carabinieri gli intima l’alt, i due si danno alla fuga. Sono reduci da un furto e forse temono che i militari sappiano qualcosa di più su di loro, ma non è così: il carabiniere Tiberio e il brigadiere Vaccari non hanno idea di essere all’inseguimento degli aguzzini di Maria Teresa Novara. Il camion dei fuggitivi si ferma in riva al Po, all’altezza del borgo medievale: si gettano entrambi in acqua, tentando di attraversare il fiume. Rosso ce la fa, Calleri annaspa. Tiberio, provetto nuotatore, cerca di raggiungerlo ma riesce soltanto ad agguantare il suo giubbotto di pelle.
Dovranno passare tre giorni prima che i sommozzatori di Genova ritrovino il cadavere dell’uomo che Rosso ha identificato come Roberto Castelli. Il suo nome è un altro, lo si scoprirà da una ricevuta trovatagli addosso: Bartolomeo Calleri detto Trumlin, 34enne residente a Canale, delinquente abituale. Quando il radiogiornale dà la notizia del ritrovamento, l'impresario Carlo Dacomo si precipita dal comandante dei carabinieri di Canale, il brigadiere Giorgio Verrastro: vanta un credito di due milioni con Calleri, e ora non sa come potrà riaverli. Insieme ai carabinieri Dacomo sale alla cascina Barbisa il mattino dopo, per dare un’occhiata. Maria Teresa è ancora viva, ed è là sotto, ma nessuno se ne accorge. Verrastro fa perquisire in modo molto sommario il garage, da cui saltano fuori un mitra Sten, un paio di bombe a mano, una carabina ad aria compressa. Nessuno vede la botola, e nemmeno i quaderni siglati dalla ragazzina, che sono in casa. Per una vera perquisizione, sostiene il comandante, serve il mandato. Ma è già sabato e lui avverte il magistrato solo il lunedì successivo: per questa negligenza, più tardi, verrà sospeso dal servizio.
Anche la seconda ispezione, comunque, va a vuoto. Bisogna aspettare il mattino di mercoledì, con l’arrivo da Torino del brigadiere Colaci e del carabiniere Giovanni Sisti, in cerca della refurtiva di Calleri. Sono loro i primi ad accorgersi che sotto le lamiere del garage c’è qualcosa: passando il tridente si trova l’ingresso della botola, dove Sisti si cala per primo. Vede due porte metalliche, le sfonda. Nella prima c’è solo un frigo rotto. Quando si apre la seconda, Sisti esclama: “Brigadiere, c’è una ragazza che dorme!”. Ma quella ragazza è morta soffocata, una manciata di ore prima. Vicino a lei trovano un biglietto: “Sono Maria Teresa Novara, voglio essere riportata nel paese dei miei genitori".
È il 13 agosto 1969. Sono passate poco più di tre settimane da quel 20 luglio in cui Neil Armstrong è sbarcato sulla Luna, Sharon Tate è stata massacrata dalla setta di Charles Manson cinque giorni prima, mentre due giorni dopo, a Woodstock, si aprirà il concerto più celebre nella storia della musica. Il giallo di Villafranca è finito, ma il mistero continua. Si scopre infatti che della presenza di quella ragazzina in casa di Calleri sapevano in molti, a cominciare da un suo vicino e amico, Antonio Borlengo: è lui il ‘terzo uomo’ che per mesi gli inquirenti mettono sotto torchio. “Per carità, non ho parlato per non avere fastidi” dirà in seguito: certo, il sospetto l’aveva avuto, ma si era fatto gli affari suoi perché Calleri era un tipo da prendere con le molle, e temeva che gli zingari suoi amici gli "avrebbero bruciato casa" se lo avesse denunciato. Borlengo, per giunta, era stato il primo a curiosare alla Barbisa, il giorno dell’identificazione di Calleri. Nemmeno dopo la morte del criminale, però, aveva trovato il coraggio di parlare.
Dunque Borlengo sapeva, o almeno sospettava, così come Rosso. E come altri insieme a loro, ospiti nelle feste che Calleri, a detta del vicino, aveva tenuto in quei mesi alla cascina Barbisa. L’identità di questi ospiti però non si conoscerà mai. A pagare per tutti sarà il solo Luciano Rosso, prima assolto e poi condannato a 14 anni di carcere per complicità in rapimento a scopo di libidine. Le accuse contro Borlengo cadranno invece, grazie all’amnistia del 1970, quando l’imputazione sarà modificata da favoreggiamento a omissione di soccorso.
Per mesi, la cascina dell’orrore diventerà meta di macabri tour simili a quelli che in anni recenti abbiamo visto a Cogne, a Perugia o ad Avetrana: “Donne incinte, vecchi semiparalizzati, bambini, tutti vogliono vedere”, scrive La Stampa, annotando anche la presenza di “banchi di gelati e di bibite nei prati circostanti”. Contro questa “esplosione del fanatismo, feticismo e necrofilia” si scaglia ancora nel gennaio dell’anno dopo un’interpellanza del deputato missino Beppe Niccolai. Il tempo cancellerà anche questo oltraggio, ma non il debito morale che molti a Canale ritengono di avere con Maria Teresa, a cui, per iniziativa della Pro Loco guidata da Gianni Morello, oggi si pensa di intitolare una via, una piazza o un parco giochi.
È forse il solo modo per fare pace con la memoria di quella terra che Giovanni Arpino definì “dolcissima ma implacabile nel custodire i suoi segreti", dove "fingere è ancora una garanzia, una salvezza, e chi sta zitto è rispettabile”. Fino al punto che "per non vedere il diavolo molti preferiscono chiudere gli occhi, e aumentare il credito verso il Caso".
Andrea Cascioli
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