Centro Incontri della Provincia di Cuneo, ore 18
Il politologo Marco Tarchi a Cuneo racconta la destra da Almirante a Meloni
L’autore di “Le tre età della fiamma” sarà in Provincia venerdì 4: “Il campo largo perde pezzi, Vannacci è a rischio. Ma la premier stia attenta ai Berlusconi”È considerato il politologo più addentro ai segreti della fiamma tricolore, che dopo aver frequentato da militante in gioventù ha studiato per oltre quarant’anni come docente universitario.
Marco Tarchi, fiorentino, classe 1952, negli anni Settanta fu vicesegretario del Fronte della Gioventù e tra gli animatori dei Campi Hobbit, prima di allontanarsi dal Msi per promuovere la Nuova Destra, pionieristico tentativo di distaccarsi dal passato fascista senza perciò abbracciare l’orizzonte liberalconservatore e filoatlantico. In seguito ha affiancato all’attività metapolitica - con le riviste Diorama Letterario e Trasgressioni - quella professionale di accademico. L’ultimo lavoro, “Le tre età della fiamma”, è uscito per Solferino in forma di libro-intervista, realizzato insieme al giornalista del Corriere della Sera Antonio Carioti.
Venerdì 4 ottobre alle ore 18 Tarchi sarà a Cuneo in sala Falco, presso il Centro Incontri della Provincia, invitato dall’associazione culturale Kleos.
“Le tre età della fiamma” esce a trent’anni da un fortunato volume, “Cinquant’anni di nostalgia”, di cui riprende la forma del libro-intervista (con lo stesso coautore) e l’oggetto di analisi. Allora, però, si trattava di spiegare un trapasso più diretto e anche più traumatico, quello dal Msi ad Alleanza Nazionale. Tra il Msi, An e Fratelli d’Italia, c’è davvero una continuità tale da poter parlare – appunto – di una “terza età” della fiamma?
Non è detto che il filo conduttore del rapporto fra tre fasi successive di una storia debba essere la continuità. Ogni cambio di epoca comporta adattamenti, ripensamenti, revisioni, talvolta abiure, che tuttavia non cancellano genealogie e filiazioni. Nel caso in questione, è proprio la provenienza di gran parte dei quadri dirigenti a testimoniare un processo evolutivo che ha coinvolto una parte non trascurabile dell’ambiente d’origine. E mentre la parabola di Alleanza nazionale era stata contrassegnata da ripetuti e rivendicati strappi nei confronti di varie posizioni politiche assunte nel recente passato, in Fratelli d’Italia lo stacco rispetto ad An è stato sin qui molto più morbido, anche e soprattutto per non perdere i consensi di un elettorato che Fini aveva lasciato orfano di una “casa” in cui riconoscersi. La direzione di marcia è stata la stessa intrapresa a Fiuggi – un distacco dalla matrice originaria in direzione di un conservatorismo nazional-liberale, ma senza accenti enfatici.
Cominciamo dalla stretta attualità. Rispetto a Francia e Germania, il governo italiano ha passato indenne le elezioni europee. Il Pd di Schlein, tuttavia, si è dimostrato un avversario più coriaceo di quanto ci si potesse aspettare e la formula del “campo largo” potrebbe impensierire. La luna di miele tra Giorgia Meloni e gli italiani continuerà?
Non azzardo mai pronostici. Ma se il “campo largo”, già di per sé eterogeneo, continuerà a perdere pezzi e a lacerarsi su questioni di programmi e di persone, il suo successo è tutt’altro che scontato.
In questo quindicennio “post berlusconiano” abbiamo assistito a così tante ascese e cadute di capi politici in brevissimo tempo da far impallidire le sceneggiature de Il trono di spade. Giorgia Meloni è stata più scaltra dei nemici caduti (Renzi, Salvini, Conte…), o soprattutto fortunata?
Le circostanze l’hanno sicuramente favorita, nella fase iniziale, ma l’attuale situazione economica, e la guerra intestina non dichiarata ma evidente innescata da Forza Italia e dalla famiglia Berlusconi la metteranno a dura prova. Si vedrà quindi di che tempra è fatta: può darsi che il suo successo sin qui sia dovuto a scaltrezza, ma non si può escludere una maggiore capacità a interpretare il ruolo. Di sicuro, comunicativamente sa giocare le sue carte, e la personalizzazione dello scontro con Schlein le consente di giocare su un’immagine speculare a quella dell’avversaria, repulsiva per gran parte dei suoi elettori potenziali.
C’è il rischio che una sconfitta nella battaglia sul premierato destabilizzi la sua leadership, o a suo favore gioca l’assenza di alternative credibili nella coalizione?
Se la proposta non passasse, vorrebbe dire che la coalizione di governo si sarebbe liquefatta, perché le opposizioni da sole non sono in grado di affossarla. Ipotesi da non escludere, ma che porrebbe Forza Italia, l’unica componente della compagine governativa a poter essere disponibile a una manovra di questo genere, in una situazione di grande difficoltà di fronte a gran parte dei suoi elettori.
Un dato clamoroso è l’inversione dei poli geografici a cui è andato incontro Fratelli d’Italia: nel 2022 e di nuovo alle europee ha preso più voti al Nord che al Sud. Non era mai successo nella storia della destra. Ma cosa significa, per la fiamma, perdere il Meridione? E che ruolo ha avuto il Movimento 5 Stelle in questa tendenza? Il trend si rafforzerà nei prossimi anni, con il governo che da un lato abolisce il reddito di cittadinanza e dall’altro approva l’autonomia differenziata?
“Perdere il Meridione” mi sembra un’affermazione eccessiva. Semmai, è stata un’impresa non da poco scalzare la Lega da alcune delle sue roccaforti. Il M5S si è salvato da una sonora débâcle grazie ai voti raccolti al Sud, che però non si accompagnano a un solido radicamento in quella parte d’Italia, da sempre soggetta a una forte discontinuità dei cicli elettorali. Se rimarrà alla guida del governo per l’intera legislatura, FdI potrà probabilmente riscuotere i vantaggi del sottogoverno, da sempre tangibili nelle regioni meridionali. Quanto all’autonomia differenziata, i suoi effetti dipenderanno da tempi e modi della traduzione in pratica delle previsioni di legge.
FdI finora si è giovato dell’assenza di nemici a destra. Il futuribile “partito di Vannacci” potrebbe impensierire Meloni e i suoi?
Qualche fastidio potrebbe darlo, ma soprattutto se Vannacci manterrà la sua attuale collocazione. Se punterà su un partito personale, rischierà un’intensa demonizzazione, anche perché attorno a lui potrebbe confluire una fauna di personaggi folcloristici e nostalgici in grado di screditare qualunque sua iniziativa.
Più in generale, viene da chiedersi che fine abbia fatto il populismo. Se lo giudichiamo paragonando i risultati elettorali della Lega “di lotta” con quelli dei Fratelli d’Italia “di governo” sembra passarsela male. Testimonia qualcosa di simile anche la crisi che attanaglia il Movimento 5 Stelle, a paragone della buona tenuta di forze “istituzionali” come il Pd e perfino Forza Italia. Ma è davvero tutto così semplice?
Se si getta lo sguardo al di fuori dei confini, mi pare che la salute del populismo sia tutt’altro che cagionevole. Il caso italiano è per adesso anomalo a causa di almeno due fattori: l’ascesa alla guida del governo di un partito che al repertorio stilistico e programmatico populista ha largamente attinto nella fase di opposizione, soprattutto dal 2017 al 2021, e che, giunto nella “stanza dei bottoni”, ha ovviamente preferito indossare l’abito della rispettabilità, e il clamoroso suicidio del Salvini del Papeete, che ha compromesso le sorti della sua formazione politica, e quelle personali, proprio quando era riuscito ad attirare un elettorato trasversale proprio ricorrendo alle ricette populiste. Ma il fuoco cova sotto la cenere, e prima o poi si riattizzerà.
All’estero il sovranismo continua a scontrarsi contro un cordone sanitario impenetrabile. Succede all’isolatissima Afd, ma anche al partito di Marine Le Pen. La conventio ad excludendum resisterà o è plausibile che gli avversari, divisi su tutto, non possano riproporla all’infinito?
Gli anni passano, i richiami allarmistici troppo ripetuti perdono progressivamente capacità di incidenza, le coalizioni eterogenee costruite per sbarrare la strada ai cattivi di turno spesso, al governo, danno scarsa prova di sé. Malgrado i cordoni sanitari, i partiti nazional-populisti da oltre due decenni stanno aumentando, e non di poco, il loro peso elettorale. Se sapranno migliorare le loro capacità organizzative senza snaturarsi, la loro sfida potrebbe raccogliere qualche ulteriore e più consistente successo.
I giovani sono stati, fin dai primordi del Msi, una componente centrale a destra: lo testimoniano la stessa Meloni e la “generazione Atreju”. Ma polemiche come quella successiva all’inchiesta di Fanpage sembrano confermare che il partito della fiamma lasci i giovani in una sorta di riserva indiana: tollerati finché coltivano in privato innocui riti nostalgici, salvo scaricarli se il bubbone esplode. Il “nicodemismo” di cui aveva parlato in riferimento ad An si rinnova di padre in figlio?
Non ho condotto ricerche specifiche sull’attuale organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia, ma sono propenso a condividere il suo punto di vista. Mi pare che il partito non si sia, finora, affatto preoccupato della formazione culturale e ideologica dei suoi militanti di base, puntando tutto sulla sola capacità attrattiva della leader e dei suoi vaghi proclami conservatori, poco adatti a suscitare gli entusiasmi delle generazioni più giovani. Questa indifferenza accresce il rischio di “sbandate” come quelle svelate da Fanpage.
Il tema dei giovani si associa a quello della militanza, ormai in declino in tutti i partiti. Anche l’orizzonte di Fratelli d’Italia è quello del comitato elettorale, se non proprio, guardando ai vari intrecci familiari nel gruppo Meloni-Lollobrigida, del partito personale?
FdI ha già molti dei caratteri del partito personale, a cominciare dal fatto che chi lo guida impiega quasi esclusivamente l’“io” al posto del “noi” quando delinea gli obiettivi e commenta le decisioni del governo che presiede. Malgrado i frequenti richiami ad una “comunità” di cui sostiene di considerarsi espressione, Meloni mi pare legarne molto strettamente i destini a quello che la riguarda individualmente. Nell’era dei social media, è una scelta che dà buoni profitti, ma non contribuisce a un rafforzamento delle strutture organizzative, ancora piuttosto scheletriche.
Un aspetto curioso - ne accenna alla fine del libro - nel rapporto tra il mondo della cultura attuale e la memoria del fascismo è che, paradossalmente, più ci si allontana da quei fatti e più sembra esasperarsi la retorica del “male assoluto”. Film come “Il federale”, “Anni ruggenti” o “Quando c’era lui… caro lei!” oggi sarebbero pressoché inconcepibili e forse perfino una parodia innocua come quella di Sturmtruppen verrebbe tacciata di voler sminuire la diabolicità del suo oggetto. È colpa delle dinamiche dei social e dei giornali che ne amplificano le polemiche, o davvero siamo sempre meno capaci di fare i conti col fascismo?
Direi piuttosto che, scomparsa la quasi totalità di coloro che avevano vissuto la stagione del consenso diffuso al regime mussoliniano, è diventato più facile costruire e mettere in circuito, a puro scopo strumentale, un’immagine monca e caricaturale del fenomeno fascista – speculare a quella, altrettanto fittizia, degli irriducibili nostalgici. Non è un caso che la feconda stagione degli studi scientifici approfonditi sull’argomento si sia repentinamente conclusa quando il crollo della Prima Repubblica e lo “sdoganamento” berlusconiano hanno sottratto i neofascisti dalla marginalità e ne hanno fatto l’ago della bilancia della competizione per il governo del paese. Da quel momento la parola è passata alla propaganda, di cui i molti intellettuali-militanti schierati a sinistra si sono fatti alfieri.
Chiudiamo con un piccolo diversivo ucronico. Nel suo libro scrive che senza la guerra “l’immagine del fascismo sarebbe stata considerata un po’ da tutti, sia pur criticamente, parte integrante della storia nazionale, senza le cesure legate alle memorie della lotta partigiana, con i lutti e gli strascichi che ne sono seguiti”. Ma a chi potrebbe somigliare di più, questo Mussolini postumo? A un Perón, padre della patria controverso ma tuttora rivendicato, oppure a un Franco, la cui eredità politica oggi appare del tutto spenta e perlopiù esecrata?
Sarebbe dipeso a lui, con le sue scelte, assegnarsi un ruolo capace di accostarlo al primo o al secondo dei personaggi citati.
Andrea Cascioli
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