''In molti sparivano dal paese. Li andavamo a cercare, ma non c’erano più: li avevano gettati nelle foibe”
L'83enne Luciana Rizzotti, ora cittadina braidese, ha raccontato la sua esperienza di esule istriana al Caffè LetterarioC’è chi soccombe al dolore e chi lo combatte con la forza del ricordo. È questa la storia dell’83enne istriana Luciana Rizzotti, ora cittadina braidese. La sua vita è cambiata, capovolta, da un giorno all’altro. E ora capirete perché.
Iniziamo con la premessa di quella che rappresenta una vera e propria pagina di storia, resa possibile dalla nipote 27enne Martina Raimondo, che ha filmato la sua testimonianza. “Da lei ho imparato la resilienza. Può sembrare fragile, ma non si spezza mai”, ha detto la ragazza che si è diplomata con una tesina dedicata proprio alla nonna e premiata in un concorso tenutosi a Verona, dedicato al grande esodo.
È così che nella serata di giovedì 21 gennaio la Rizzotti è approdata su Facebook, ospite di Silvia Gullino ed Enrico Sunda al Caffè Letterario di Bra in modalità online. Lo ha fatto con un podcast sul gruppo ‘Bra. Di tutto, di più’ che è arrivato (udite, udite) persino a Trieste: “Voglio diffondere messaggi positivi. Far capire che la vita continua, anche se a volte ti mette a dura prova. Io ho vissuto la guerra, ho perso la mia casa, la mia terra, persone che amavo. Certi traumi non li superi mai completamente, ma abbattersi non serve”, ha raccontato la donna che ha vissuto sulla sua pelle le vicende istriane, narrate nel libro ‘Il grande esodo’, di cui è l’autrice (alcune copie sono ancora disponibili gratuitamente presso l’ufficio turistico di Bra).
La sua storia è simile a quella dei 350mila esuli che hanno lasciato le loro terre native italiane in Istria, Dalmazia e parte della Venezia Giulia a causa del Trattato di Parigi, firmato il 10 febbraio 1947. Le nazioni vincitrici della Seconda Guerra Mondiale (Stati Uniti, Russia e Inghilterra) decisero che l’Italia dovesse cedere quei territori alla Jugoslavia del Maresciallo Tito, alleato dei russi.
Dal 2004, con l’istituzione del Giorno del Ricordo (10 febbraio) - regolamentato dalla Legge n. 92, che mira a “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale” - c’è più coscienza di quello che è accaduto. “Prima, quando dicevo di essere esule istriana nessuno capiva. Adesso - sottolinea la Rizzotti - tutti hanno presente quello che abbiamo sofferto”.
La vita di Luciana e della sua famiglia prima della guerra scorreva serenamente. “Mia madre e mio padre - ricorda - avevano un negozio di mille articoli. Vivevamo in una casa a Cittanova d’Istria, il negozio era al pianterreno e c’era anche la cucina, un bel cortile e sopra il nostro appartamento. Non ci mancava nulla, eravamo felici, il paese era tranquillo”. Poi iniziarono i primi momenti di difficoltà. “Durante la guerra - racconta Luciana -, il nostro paesino era stato colpito da 2 bombardamenti, ma fortunatamente la nostra casa era rimasta intatta”.
Quando la guerra finì ed il mondo festeggiava la pace, si consumò il dramma. “Un giorno - continua -, i titini portarono via mio padre e lo misero in carcere, reo di aver nascosto al partito dei beni del negozio. La sua sorte fu comune a quella di tanti altri connazionali, sottoposti ad umiliazioni di ogni tipo. Molti, invece, sparivano dal paese, li andavamo a cercare, ma purtroppo non c’erano più: li avevano gettati nelle foibe”.
Foibe: un termine che si aggiunge alla galleria degli orrori del ‘900 e che descrive la drammatica fine di persone colpevoli solo di essere italiane e di essere viste come un ostacolo al disegno di egemonia comunista. In molti conclusero la loro esistenza nei durissimi campi di detenzione oppure furono uccisi in esecuzioni sommarie o addirittura gettati, vivi o morti, nelle profondità di queste cavità carsiche.
“Iniziò un incubo per noi italiani di laggiù - spiega l’esule istriana -. Tutte le cose di nostra proprietà ci furono tolte e nazionalizzate. Anche il negozio dei miei genitori fece quella fine. La convivenza con gli slavi era sempre più difficile. Poi ci offrirono la triste alternativa: o diventavamo jugoslavi oppure ce ne dovevamo andare. Noi scegliemmo di tornare in Italia. E come la nostra famiglia praticamente tutti gli altri. Le nostre case furono poi occupate dagli slavi”.
Luciana e i suoi familiari si trasferirono a Opicina, un quartiere di Trieste, in un campo di accoglienza. Un periodo di grande miseria, come ha spiegato: “Per due mesi abbiamo vissuto in sei donne e quattro bambini dentro una baracca, separati da papà che era in un’altra. Il bagno comune era all’esterno e si andava a prendere il cibo alla cucina di campo. Però noi istriani siamo gente che non si arrende. Poco dopo uscì un bando per chi desiderava spostarsi in diverse regioni italiane. Noi scegliemmo il luogo più vicino a Torino, dove abitava mia sorella con la famiglia, profuga da Pola già dal 1947. E così, nel 1954, siamo arrivati a Bra, dove ci siamo ricostruiti una vita, una famiglia, nuove amicizie, un alloggio popolare nuovo e decoroso, un lavoro”.
Oggi Luciana Rizzotti è una nonna in pensione, ma anche un pezzo di Storia vivente. In lei, il ricordo di quei giorni, è più che mai vivido. La mente è lucida. Mentre gli occhi, di un verde cristallino, si bagnano ancora nel rammentare quel dolore che è stato sì di un popolo, ma anche e soprattutto di una bambina violata nell’infanzia. Nonostante l’età non si sottrae però al compito di portare la sua personale testimonianza alle giovani generazioni. Ma anche un messaggio, che è di “Pace e libertà”.
Redazione
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