Due racconti di una volta
Giardiniere, appassionato di storia e scrittore, Giancarlo Giordana condivide con Cuneodice.it i ricordi dei tempi andatiNatale in casa Giordana
Il Natale di una volta non era certo quello commerciale di adesso: ora c’è Babbo Natale e non più Gesù Bambino che nella notte tra il 24 e il 25 dicembre portava i doni sotto il cuscino. Qualche noce, due mandarini…l’attesa era trepida e l’atmosfera cristiana avvolgeva il tutto.
Il pranzo di Natale, ricco per quei tempi, consisteva in un piatto di raviole “ris e coi” fatte in casa e per secondo il bollito con tanta verdura, così il brodo poteva essere utilizzato per la cena versandola nel piatto sopra il pane raffermo. Tutto questo era una vera festa ed eravamo felici, adesso le gastronomie offrono ogni ben di Dio, tutto preparato, basta pagare, non c’è più quell’attenzione e quell’amore dei piatti fatti in casa. Anche i regali avvolti in carte sempre più lucide spesso sono inutili. Adesso impera il consumismo, l’usa e getta. Allora anche il mio povero presepe era bellissimo ai miei occhi: raccoglievo nei boschi muschio e rametti di legno per rendere il paesaggio più ricco, visto che le statuine erano poche. Con la fantasia si creavano laghetti e cascate con la carta stagnola di recupero.
Durante l’anno la si raccoglieva, la si distendeva bene per avvolgere noci, castagne, piccole pigne e bottigliette in vetro dei medicinali: il tutto per l’albero di Natale, che non era un pino, ma un ramo di ginepro contorto che cresceva spontaneo nei boschi aridi sulle nostre colline, e che mio padre andava a prendere e poi cercava di raddrizzare tramite un grosso bastone. Ricordo che un giorno, mentre tornavamo dai campi, sulla strada provinciale passava una giardinetta piena di scatole dentro l’auto e sulla bagagliera scatoloni: uno cadde, forse perché non era ben legato.
Mio padre con urla e gesti tentava di fermare l’autista, invano. Aprimmo: i nostri occhi, ma soprattutto i miei, furono colmi di meraviglia e stupore. Erano campionari di decorazioni per l’albero, bellissimi e mai visti, già li vedevo appesi in casa, e invece vidi papà portare il tutto in Municipio, non servirono le proteste e i piatti. Dopo un anno lo scatolone tornò a casa, ero al settimo cielo e mi sentivo il più ricco del mondo. Ma i miei genitori mi fecero tornare velocemente con i piedi per terra: a mia insaputa avevano già parlato con l’arciprete, e avevano deciso che quelle meraviglie sarebbero state condivise con gli altri bambini meno fortunati di me.
Una croce tra le rose
Il prato che dava su via “distretta”, ora via Borgo-Caraglio, non era solo il campo del tarassaco che appena si scioglieva la neve raccoglievamo per la “cura depurativa”. Era soprattutto il “Prà d capela Ruta”, a ricordare che lì fin dal 1600 circa sorgeva una cappella dedicata a San Bernardo, demolita in epoca napoleonica. Al suo posto per ricordarla c’era una grande croce in legno composta da due tronchi rotondi ai cui piedi erano state piantate delle rose a fioritura unica, che tramite polloni si allargavano nel prato.
Quando ancora fiorivano le margherite ed era il tempo del maggese, mio padre, abile con la falce, tagliava l’erba per la fienagione, lasciando solo gli steli più vicini alla croce. Era mio compito fare da cernita. Nel 1949 don Maccagno, il parroco, decise di sostituire la croce di legno con una in graniglia: aveva già parlato con il muratore, quindi le rose andavano tolte. Nell’anno santo 1950 venne benedetta con tanto di processione, venne posata una lapide a ricordo dei padri passionisti, ma nulla che potesse ricordare la cappella.
Le rose non si erano ancora riprese quando l’amministrazione provinciale decise di allargare e raddrizzare la strada tagliando a metà il prato. Il povero Cristo in croce adesso era rivolto verso i campi: chi avrebbe ancora fatto il segno della croce o recitato una preghiera? Il sacerdote, preoccupato, si rivolse direttamente a Cuneo per far posizionare la croce verso la strada nuova e quando furono eseguiti i lavori, tra scavi e imbragature fu tutto inglobato con ferro e cemento, così come si presenta adesso. Quella croce non è stata soltanto occasione di momenti di preghiera, ma di incontri di amicizia e di amori, alcuni anche con tanto di matrimonio. Quando ero adolescente quel posto era diventato un punto di incontro: ci trovavamo alla “Crus” per decidere a quale festa andare. Quel povero Cristo ne ha viste e sentite delle belle! Ma come passa il tempo, come cambiano le cose: quel piccolo giardino di poche rose e tante erbacce ha invogliato a scaricarci pietre di campo, scarti edilizi, perfino sacchetti di immondizia.
Circa dieci anni fa l’amministrazione comunale bonificò il tutto piantando due rose rampicanti e due rose coprisuolo. Sfrecciano veloci le auto, anche troppo. Sulla pista ciclopedonale passano tante persone, le osservo dal mio giardino: i ciclisti numerosi e colorati tengono ben salde le mani sul manubrio, e parlo di colline da scavalcare e trattorie da provare. I pedoni pellegrini di un tempo non ci sono più. Quelli di oggi super tecnologici parlano di feste, di diete, di pranzi e cene fuori casa. A volte mi illudo, vedo un braccio che si alza e penso subito al segno della croce, invece è per guardare quel marchingegno che ti dice quante calorie hai bruciato, quanti passi ancora devi fare.
Nessuno si interessa più a quella croce mezza affumicata dagli scarichi. Una volta eri sulla mia terra, adesso su una terra di nessuno e per venirti a trovare con il tosaerba devo attraversare quella pista infernale dove tutti corrono veloci: mi faccio il segno della croce per non essere investito!
Giancarlo Giordana
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