L’altra faccia del turismo. Riflessioni di un cuneese dopo un viaggio nel Ponente ligure
Un’illusione sta trasformando le valli e i paesi in attrazioni per turisti, pensando che così si risollevi il destino di una popolazione e di un territorioLa Liguria è terra d’elezione per noi cuneesi: si può dire che la sentiamo “nostra”, ben più di quanto sentiamo tali altre parti del Piemonte. Non è certo per caso che i Romani avevano unito il territorio del Piemonte meridionale alla “Regio IX Liguria”, mentre Torino e il Piemonte settentrionale facevano parte della “Regio XI Transpadana”. Noi eravamo e siamo Liguri, un popolo che già il poeta Greco Esiodo nell’VIII secolo a.C. considerava tra i più antichi abitanti del mondo, insieme a Sciti ed Etiopi. Un popolo che gli scrittori latini (Cicerone, Livio, Virgilio, Tacito) descrivevano come quasi selvaggio, ferino, i cui guerrieri incutevano timore solo con il loro aspetto. Nel contempo venivano però sottolineate le qualità di solidarietà e onestà di una società non ancora divisa in classi e in cui le donne affrontavano le stesse fatiche degli uomini in una terra definita sassosa, sterile, aspra o coperta di alberi da abbattere. Diodoro Siculo, nel I secolo a.C. scriveva: quantunque abbiano a lottare con tante sciagure, a forza di ostinato lavoro superano la natura. Lo storico Marco Porcio Catone, vissuto fra III e II secolo a.C., nella sua opera “Origines” osservava che i Liguri erano “ignoranti”, perché non conoscevano la loro origine, avendone perduto la memoria. Un giudizio non proprio benevolo, ma che in qualche modo sembrerebbe spiegare la scarsa propensione alla valorizzazione del proprio patrimonio storico e culturale che accomuna ancora oggi Liguri di mare e Liguri di montagna. Un popolo di guerrieri, di agricoltori, virtuoso e onesto, che però non conosceva l’uso della scrittura e non sentiva il bisogno di raccontare la propria storia.
Ogni volta che scendo verso il mare dal Colle di Nava o dal Colle di Cadibona percepisco il forte legame che unisce le terre al di qua e al di là delle montagne. L’accumulo di vecchi attrezzi e ciarpame che vedo in tante vecchie case e giardini vicini al mare è lo stesso di tante cascine della pianura e delle valli cuneesi: non si butta nulla, tutto può servire. La stessa visione del mondo, severa, per nulla incline all’estetica, un po’ malinconica e disincantata. Più disincantata, quasi fatalista, quasi indifferente tra gli abitanti della costa, che convivono ormai da oltre mezzo secolo con le conseguenze del turismo di massa: un fenomeno che hanno creduto forse di cavalcare, ma da cui sono stati domati, forse umiliati, certamente sconfitti. Arma di Taggia, una domenica d’estate: migliaia di persone sotto gli ombrelloni, distese su asciugamani, cosparse di creme abbronzanti. Poco distante, alla foce del torrente Argentina, un porticciolo con piccoli capannelli di uomini, anziani e giovani, che pescano o parlano tra loro, appartati, sotto un cavalcavia, vicino ai canneti.
Sono i veri taggiaschi. Uno scorcio di autenticità circondato da condomini ormai vetusti, da strade intasate, da automobili parcheggiate ovunque, da negozi con vetrine scolorite dal sole, da garage, magazzini, uffici affastellati gli uni sugli altri. Se dalla costa si prosegue per Taggia e si risale verso l’interno, passando per Badalucco e Montaldo, si raggiunge Triora, uno splendido borgo medievale a quasi 800 metri sul mare, vicino al confine con la Francia. Ha il fascino ammaliante di molti borghi dell’entroterra ligure, in parte immolato sull’altare del turismo con una fastidiosa insistenza sul “paese delle streghe”. Cosa non si fa in nome di un presunto sviluppo locale. Il turismo ha il potere micidiale di snaturare un paese, un territorio: è lui l’unica entità stregonesca davvero portentosa. Nel centro storico che rivela a ogni passo il prestigio che ebbe il paese in tempi andati, si aprono qua e là patetiche botteghe di cianfrusaglie ispirate alle streghe, vecchie porte malamente ridipinte con storie di streghe, un museo bellissimo, su più piani, realizzato con fondi europei, con rifiniture fin troppo costose, ma in buona parte vuoto: stanze arredate con bellissime e costose librerie e vetrine completamente vuote. Un senso di incompiuto, di sospeso, di finto. Una biglietteria informatizzata, che oscura e relega in disparte una simpatica signora dietro ad un inutile banco per l’accoglienza.
Ancora una volta penso alle valli cuneesi, al miraggio del turismo salvatutto. All’illusione che trasformando le valli, i paesi in attrazioni per turisti si risollevi il destino di una popolazione, di un territorio. Non basta rievocare streghe, masche, sarvan e sarvanot per creare vero e duraturo sviluppo. E i soldi dell’Unione Europea dovrebbero essere spesi per servizi utili alla popolazione locale, non soltanto in cattedrali nel deserto che alla lunga non reggono e diventano un peso per le comunità locali, finendo spesso chiuse e dimenticate.
Penso ai fondi del PNRR e a come saranno spesi nelle nostre valli. I progetti del bando Borghi sono quasi tutti destinati a interventi che ben difficilmente incideranno sul tessuto economico e sociale del territorio. Si aggiungeranno ai tanti fondi spesi nei decenni precedenti per cercare di indurre artificialmente uno sviluppo turistico che deve e può trovare altrove i suoi fondamenti.
Dino Boscolo
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