Matteo Bussola tra i ragazzi al Ponte del Dialogo: “In questo Paese essere giovani è un problema”
In “La neve in fondo al mare” ha raccontato l’anoressia maschile negli occhi di un padre: “Dopo il lockdown un’epidemia psichiatrica, siamo malati di controllo”Sono pochi, emarginati, criticati, qualche volta perfino detestati dalle generazioni più vecchie. Sono, soprattutto, ipercontrollati. Sono i giovani oggi, dice Matteo Bussola. Che si sforza di conoscerli con gli occhi del padre - di tre figlie adolescenti -, del narratore, del conduttore in una trasmissione radio con un titolo che è un programma (Non mi capisci), dove invece degli esperti a parlare sono proprio i ragazzi.
A Dronero l’autore di “La neve in fondo al mare” è venuto per onorare una promessa, quella dell’incontro con i giovani del festival Ponte del Dialogo, che a lui si sono ispirati e che avrebbero voluto averlo ospite già due anni fa. “Ho l’impressione che in questo Paese il problema non sia quello che i giovani fanno, ma l’essere giovani” dice lo scrittore veronese a chi i giovani li irride: “Non ci pensiamo mai, ma ci vuole tanta pazienza per crescere in una società dove ti controllano in ogni momento e dove sembra che tutto quello che fai non vada bene. Quando fanno manifestazioni contro la crisi climatica gli adulti li chiamano ‘gretini’ o insinuano che tengano i cortei di venerdì per allungare il fine settimana. Li accusiamo di essere una generazione di sfaccendati, di svogliati, privi di fervore politico: loro invece in piazza ci vanno, naturalmente per le cose che interessano a loro, come le lotte Lgbt o la Palestina”.
Ora ci si mette il ddl Sicurezza, col quale, aggiunge ironico, “tra poco in questo Paese si potrà manifestare solo in fila indiana, identificandosi prima”. Il controllo: un’ossessione dei nostri tempi, fin dai banchi di scuola. Secondo Bussola è l’aspetto che più di tutti questa generazione ha condiviso, e c’entra con il lockdown solo in parte: “Mi arrabbio molto quando sento descrivere questa generazione come la più libera e la più ricca di possibilità, invece secondo me è la più prigioniera”. Registri elettronici, notifiche sulle assenze da scuola, la localizzazione Gps sullo smartphone dei ragazzi: “Io rivendico il diritto a mentire, dovrebbe essere tutelato dalla convenzione di Ginevra” scherza l’autore. Perché “raccontare qualche balla ogni tanto è sano, è una modalità che gli adolescenti mettono in campo per avere zone di autonomia nelle quali non sono visti dai genitori. Quello non è il male, è il sale”.
Il male c’è, ma bisogna cercarlo altrove. Nei reparti di neuropsichiatria infantile che si sono riempiti, dopo mesi di isolamento forzato in pandemia: è un’“epidemia psichiatrica”, conferma Bussola, parlando di quando si è trovato davanti a “ragazzi che avevano le braccia piene di cicatrici, senza un centimetro di pelle sana, o ragazze che pesavano meno di quaranta chili”. Gli affidavano i loro pensieri: “Mi sono ricordato che chi ha il privilegio di riuscire a raccontare storie dovrebbe soprattutto dare voce a chi voce sente di non averla. Mi sono accorto che una generazione aveva un sacco di voglia di essere vista e di essere raccontata: non più nel linguaggio medico della psichiatria, ma con quello empatico del romanzo”.
È quanto lui ha fatto in “La neve in fondo al mare”. Un romanzo scritto in prima persona, da un punto di vista poco convenzionale: quello di un padre che affronta l’anoressia del figlio maschio. Qui lo scrittore parte da un aneddoto personale, quando in attesa della nascita di una figlia aveva sentito un’infermiera sbuffare: “Questi papà non sappiamo mai dove metterli”. Ed è vero, dice lui: “I padri ‘non sappiamo mai dove metterli’, perché nessuno ci dice mai di preciso quale dovrebbe essere il loro posto: soprattutto davanti a una nuova vita, in ospedale, siamo quelli che portano borse, che stringono mani o che vanno al distributore automatico”. Bussola lo fa dire anche a Tano, il protagonista del romanzo: “Siamo una società che cospira per tenere il corpo dei padri lontano dai figli”.
Tano non è un papà assente o poco amorevole. Al contrario: “È il genitore che sulla carta, in teoria, ha fatto tutto bene: è il padre presente che accompagnava il figlio a scuola e in piscina, che ne è stato il confidente. Poi, a un certo punto, nella crescita di Tommy è successo qualcosa. Tommy ha iniziato a soffrire di anoressia nervosa e Tano è ossessionato dall’idea di riuscire a capire quando si sia aperta quella crepa”. I flashback, ricorrenti nel testo, sono il suo tentativo di trovare il bandolo della matassa, di spiegare un dolore senza colpa. All’estremo opposto di Tano c’è Franco, il padre di una paziente autolesionista: “Il personaggio che mi ha dato più filo da torcere, ma è anche diventato il mio preferito” confessa Bussola. Franco incarna il “paternalismo giudicante” che abita dentro ogni genitore: “È quello che durante il lockdown diceva frasi come ‘cosa dovrebbero dire i nostri genitori che hanno fatto la guerra, quando voi eravate sul divano con Netflix e popcorn’. Uno di quei padri convinti che la figlia si tagli perché ha la scusa ‘per non fare un c…’, uno di quelli che non resistono all’irresistibile tentazione dei discorsi sui ‘miei tempi’”. Franco, scherza l’autore, “è un po’ Paolo Crepet, come atteggiamento di fronte alla vita”.
Anche il suo, però, è solo un tentativo di difendersi da un male troppo profondo: “A un certo punto ci rendiamo conto che questi discorsi di apparente buonsensismo non sono altro che una cortina fumogena. La verità è che lui non lo vuole davvero vedere il dolore di sua figlia, sa che non ce la può fare e cerca di tenerlo distante in questi modi un po’ ingenui: perché ogni genitore trova il suo modo di restare in piedi”.
Andrea Cascioli

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