"Quando la classe dirigente che detiene il potere parla del lavoro, rispondiamo... ma fateci il piacere!"
Ci scrivono tre lettori di destra: "La difesa dei lavoratori non è più al centro della politica di sinistra, ora pensano agli immigrati e alle differenze di genere"Riceviamo e pubblichiamo.
Egregio direttore,
il Dipartimento Lavoro di Fratelli d’Italia del Piemonte, coordinato dal dirigente Roberto Russo, ha svolto a Torino un convegno di pressante attualità sul tema “Proposte per il lavoro”. Sono state esaminate, denunciate ed indicate condizioni e proposte per i vari settori del mondo del lavoro e della produzione a livello nazionale e piemontese. La crisi economica permanente dal 2008 (fallimento dell’azienda americana Lehman Brother’s) ha fatto scadere le possibilità di lavoro flessibile, atipico, autonomo, quindi il lavoro considerato sicuro, facendo ingenerare la paura dell’estinzione delle garanzie del lavoro dipendente del passato e di non avere un futuro rassicurante. In più, la difesa dei lavoratori, dal dopoguerra cavallo di battaglia soprattutto di comunisti e socialisti e degli intellettuali cosiddetti progressisti, non è più messa al centro della politica dei partiti di sinistra. Da anni, infatti, i loro argomenti preferiti sono gli immigrati, le differenze di genere, i diritti individuali anziché i diritti sociali. Anche i sindacati collegati alla sinistra sono screditati, frammentati e privi di una rappresentanza politica.
Considerando alcune realtà di lavoro in fabbrica, appare che quasi tutti i lavoratori siano ormai degli informatici, usi alle tecnologie, digitalizzati, e avviati alla formazione, quasi non esistessero più le categorie di operai. Ma quanto e quando mai! In generale, le organizzazioni sindacali gestiscono prevalentemente attività di servizio (assistenza, intermediazione, formazione, tesseramento), mentre laddove esistono, in realtà non hanno più la forza e le opportunità di difendere le condizioni e i rapporti di lavoro, in continuo cambiamento nelle fabbriche e negli uffici. Gli operai vengono assunti con la formula del subappalto da cooperative, con paghe al ribasso e condizioni di sicurezza inadeguate. Le assunzioni tramite agenzie cooperative sono a tempo determinato, al massimo per due anni, dopo di che quei lavoratori sono indirizzati presso una diversa agenzia e così via. Il primo giorno di lavoro il lavoratore è avvisato: attento a non ammalarti, non chiedere permessi, sii totalmente disponibile alle sostituzioni. Il rinnovo dell’assunzione per chi lavora a tempo determinato ha solitamente la cadenza di due-tre mesi, con semplice preavviso di un paio di giorni. Molti giovani vengono assunti a partime anziché a tempo pieno, così i tanti in “panchina” possono essere chiamati all’occorrenza incondizionatamente. Sono anche queste condizioni che favoriscono il ricorso mistificatorio al reddito di cittadinanza. La precarizzazione generalizzata è un fenomeno che colpisce particolarmente i giovani in cerca di prima occupazione.
E’ anche l’ambiente di lavoro che è mutato, e in genere non in meglio. Non esistono più i rapporti interni di squadra: i capi reparto sono estranei alle esigenze concrete degli operai. I dirigenti non conoscono fisicamente i propri subordinati; non esiste più un rapporto umano fra superiori e dipendenti. In fabbrica si è istituzionalizzata la figura del cronometrista, arbitro della vita di fabbrica, sulle orme del modello dettato dall’americano Taylor più di cento anni fa, ma senza più la solidarietà di un tempo con la manodopera. I nuovi assunti non vengono istruiti sulle macchine cui saranno adibiti, anche per conoscerne i limiti, i difetti, i trucchi del mestiere, ma vengono affiancati ad un altro operaio, che nel frattempo deve continuare a fare il proprio lavoro. L’impianto in produzione non può arrestarsi. Cose simili avvengono anche in occasione di improvvisi, temporanei rimpiazzi. Sono situazioni e ritmi di lavoro che unitamente alla forzatura della resa dei macchinari spesso causano incidenti e infortuni, tenuto conto che i costi per la salute e la sicurezza sul lavoro sono visti in ottica di “spesa”, per lo più indiretta e inutile, piuttosto che come investimento produttivo. Di contro, si ingenera fra gli addetti il timore di denunciare eventuali infortuni, per paura di perdere il posto di lavoro.
Inoltre, per il mondo del lavoro è insorta la grossa questione delle delocalizzazioni di parecchie imprese, anche non in crisi, che pur hanno ottenuto sostanziosi contributi e incentivi statali. A parte tempi e metodi di attuazione, quando le grandi imprese vedono i loro profitti – che devono annualmente sempre crescere – a rischio, non si preoccupano di licenziare. Per concezione generale, purtroppo il lavoro è considerato un “costo”, non un fattore della produzione al pari del capitale e dell’azionista. Le aziende che decidono di licenziare lavoratori e delocalizzarsi all’estero dovrebbero compiere un percorso regolato da norme e gestire in sede governativa le loro decisioni. Per fortuna in Italia sono tante le imprese che attendono giustamente una radicale riforma degli ammortizzatori sociali, e premi e sostegni per quelle che investono, rinnovano gli impianti, assumono nuova manodopera e non mettono i dipendenti in cassa integrazione. Questo deve essere un fondamentale impegno politico.
L’illustre economista Keynes sosteneva che per ridare slancio all’economia di un Paese, affinché il mercato riprendesse occorreva sostenere la domanda interna, e per questo obiettivo era necessario intervenire per aumentare le entrate delle famiglie con l’aumento dei salari e delle pensioni. Già nel 1931, un capo del Governo italiano che capiva e affrontava le situazioni finanziarie ed occupazionale seguite alla gravissima depressione mondiale, ammoniva in Senato:” Qui non è il caso di levare la discussione se il Governo debba intervenire o non debba intervenire. Quando l’impresa privata varca certi limiti, non è più un’impresa privata ma è un’impresa pubblica. Sarà privata l’impresa dell’artigiano, ma quando l’industria, un istituto di credito, un commercio controlla miliardi e dà lavoro a decine di migliaia di persone, come è possibile pensare che la sua fortuna o la sua sfortuna sia un affare personale del direttore dell’azienda o degli azionisti di quella industria? No. Essa interessa ormai tutta la Nazione, e lo Stato non può straniarsene. Seminerebbe delle rovine”.
Ma di questi tempi, a quanto risulta dai fatti, da parte del Governo, del Presidente della Repubblica, della Confindustria solo parole di rito e di circostanza nei confronti di chi lavora . E’ rimasta solo la Destra nazionale e sociale, dall’opposizione, ad affermare la cultura dell’umanesimo del lavoro, la difesa dei diritti dei lavoratori e del livello sociale dei salari; ugualmente per il sostegno delle produzioni italiane di fronte agli speculatori della finanza globale e agli accaparratori delle nostre imprese produttive.
Quando la classe dirigente politica ed economica che detiene da tanto il potere parla del lavoro, rispondiamo: ma fateci il piacere!
Ringraziamo per l’attenzione.
Paolo Chiarenza, Guido Giordana, Luca Ferracciolo (Cuneo)
Redazione
CUNEO lettera - Paolo Chiarenza - guido giordana