"Si può ancora parlare di Festa del Lavoro?"
Riceviamo e pubblichiamo le riflessioni di un gruppo di lettori: "La difesa del mondo del lavoro non è più messa al centro della politica dei partiti e degli intellettuali di sinistra"Riceviamo e pubblichiamo.
Egregio Direttore,
siamo un gruppo di lavoratori e pensionati della provincia di Cuneo non “politicamente corretti” che domanda se si può ancora parlare di “Festa del lavoro”. Oggi va messo in evidenza che la difesa del mondo del lavoro, nel dopoguerra cavallo di battaglia dei comunisti e socialisti e dei loro fiancheggiatori cosiddetti progressisti, non è più messa al centro della politica dei partiti e degli intellettuali di sinistra. Infatti, da anni i loro argomenti preferiti sono gli immigrati, i diversi di ogni genere, i diritti degli individui anziché i diritti sociali. Anche i sindacati collegati alla sinistra sono ormai screditati, in posizione subalterna e privi di potere politico.
Nelle fabbriche e negli uffici le organizzazioni sindacali gestiscono prevalentemente attività di servizio (assistenza, intermediazione, formazione, tesseramento). Ad ogni livello le loro rappresentanze non hanno più la forza e la possibilità di far valere le condizioni e i rapporti di lavoro, che sono in continuo cambiamento . Molti operai vengono assunti con la formula del subappalto da cooperative, con paghe al ribasso e condizioni di sicurezza insufficienti. Le assunzioni sono in gran parte a tempo determinato, al massimo per due anni, dopo di che quei lavoratori sono indirizzati verso una diversa agenzia e così via. Subito il lavoratore è avvisato: attento a non ammalarti, non chiedere permessi, sii totalmente disponibile alle sostituzioni. Molti giovani vengono assunti a partime anziché a tempo pieno, così i tanti in “panchina” possono essere chiamati all’occorrenza incondizionatamente. La precarizzazione generalizzata è un fenomeno che colpisce particolarmente i giovani in cerca di prima occupazione. Sono anche queste condizioni che favoriscono il ricorso mistificatorio al reddito di cittadinanza.
È anche l’ambiente di lavoro che è mutato, e in genere in peggio. Non esistono più i rapporti personali interni di squadra: i capi reparto sono estranei alle esigenze concrete dei singoli operai. I dirigenti non conoscono fisicamente i propri subordinati; non esiste più un rapporto umano fra superiori e dipendenti. Si è istituzionalizzata la figura del cronometrista, arbitro della vita di fabbrica. I nuovi assunti non vengono solitamente istruiti sulle macchine cui saranno adibiti, e ciò impedisce loro di conoscerne i limiti, i difetti, i trucchi del mestiere, ma vengono affiancati ad un altro operaio, che nel frattempo deve continuare a fare il proprio lavoro: l’impianto in produzione non può arrestarsi. Sono situazioni e ritmi di lavoro che unitamente alla forzatura della resa dei macchinari spesso causano incidenti e infortuni, tenuto conto che i costi per la salute e la sicurezza sul lavoro sono visti in ottica di “spesa”, piuttosto che come investimento produttivo. Molte aziende non hanno in funzione strutture di agevolazione dei lavori secondo il Testo Unico sulla sicurezza del 2008.
Per il mondo del lavoro è insorta la grossa questione delle delocalizzazioni di numerose imprese, che pur hanno ottenuto in passato sostanziosi contributi e incentivi statali. Quando le grandi imprese intravedono un rischio per i loro profitti- che devono annualmente sempre crescere a vantaggio degli azionisti – non si preoccupano di licenziare. Per concezione sindacale e politica affermata dagli anni 1960 in poi, il lavoro è considerato un “costo”, non un fondamentale fattore della produzione al pari del capitale e degli impianti. La logica del “costo del lavoro” ritiene naturale che, dopo i disastri provocati dalla temibile pandemia e oggi dalla insana guerra russa-ucraina, non venga posto in primo piano a livello governativo e parlamentare il problema della falcidia che colpisce in maniera crescente il potere d’acquisto di salari e pensioni, come se le emergenze fossero ben altre. Si ignora il grido di dolore che attraverso TV e giornali lanciano quotidianamente lavoratori di ogni categoria, pensionati, artigiani e piccoli produttori.
Fin dal primo dopoguerra del secolo scorso, l’illustre economista Keynes sosteneva che per ridare slancio all’economia di un Paese, affinché il mercato riprendesse, occorreva sostenere la domanda interna, e per questo obiettivo era necessario intervenire per aumentare le entrate delle famiglie con l’aumento del salario e delle pensioni. Ma di questi anni, con la sbornia liberista e privatista, da parte del Governo e dei partiti che lo sostengono solo parole di circostanza e promesse di rito nei confronti di chi lavora. E’ rimasta solo la Destra sociale e nazionale, dall’opposizione, ad affermare la cultura del lavoro, la difesa dei diritti dei lavoratori e del livello sociale delle retribuzioni; ugualmente per il sostegno delle produzioni italiane di fronte agli speculatori della finanza globale e agli accaparratori stranieri delle nostre migliori imprese produttive. La classe dirigente politica ed economica che detiene da tanto tempo il potere, non riesce più ad affrontare i problemi di fondo del mondo del lavoro e della produzione. Men che meno i sindacati, in tutt’altre faccende ridotti e interessati. E’ proprio il caso di chiederci se si può ancora celebrare la “”Festa del lavoro”. Ringraziamo per l’ospitalità.
Paolo Chiarenza, Guido Giordana, Alberto Anello, Paolo Barabesi, Flavio Chiarenza, Luca Ferracciolo, Rosalia Grillante, Fabio Mottinelli, Maurizio Occelli, Mario Pinca, Denis Scotti, Mauro Vannucci
c.s.
CUNEO lavoro