All’imputato il sostituto procuratore Francesca Lombardi aveva contestato nell’udienza scorsa vari presunti episodi di violenza, documentati dagli accessi ospedalieri della moglie: in tre differenti occasioni la donna, arrivata in Italia da sola nell’ottobre 2018, presentava lividi all’occhio, tagli sul labbro, ecchimosi al volto. A dare origine al procedimento era stato però un altro avvenimento, risalente appunto al 12 giugno dello scorso anno. Quel giorno la donna era entrata in una farmacia di Mondovì portando con sé il figlio di pochi mesi e implorando di essere aiutata: i carabinieri l’avevano trovata in pigiama, terrorizzata, con un grosso livido sull’avambraccio. Raccontava di essere stata picchiata dal marito e di non voler tornare a casa, perciò era stata accompagnata con il figlio in una struttura protetta.
Lui ha ammesso di aver “strattonato” la moglie in quella circostanza e si è scusato, negando però di averle mai usato violenza in altre occasioni: “Ci è capitato di litigare, ma senza botte né insulti. Insistevo perché lei imparasse l’italiano e prendesse la patente”. Il pubblico ministero ha comunque ritenuto attendibile la versione della parte offesa, contestando a S.B. anche l’aggravante di aver commesso i maltrattamenti in presenza di un minore di pochi mesi: “Si tratta di soggetti che vengono da un contesto culturale diverso dal nostro, nel quale il ricorso alla violenza in famiglia è, se non accettato, quantomeno ampiamente tollerato. Ciononostante, la Cassazione ha ribadito in modo chiaro che l’ordinamento penale italiano non arretra di fronte a condotte lesive della dignità della persona”.
Oltre che ai referti e alle testimonianze di assistenti sociali e carabinieri, l’accusa ha dato rilievo alle numerose fotografie che la donna scattava per documentare i segni sul suo corpo. Immagini inviate più volte alla sorella in Marocco e poi cancellate dal cellulare perché il marito non le vedesse: “Era sola in Italia, senza famiglia né legami amicali, e quello con la sorella era l’unico canale di comunicazione che le rimaneva quando le veniva concesso di utilizzare il telefono”. Anche la difesa di parte civile, con l’avvocato Tiziana Marraffa, ha sottolineato la condizione di solitudine della signora: “Quell’unione era il frutto di un matrimonio combinato. Il marito si occupava di tutto e lei, arrivata in Italia da poco, non vedeva vie d’uscita. In un messaggio scrive addirittura che avrebbe voluto morire con il suo bambino”.
Per la difesa, rappresentata dall’avvocato Angela Figone, il quadro accusatorio riflette invece un “pregiudizio culturale” nei confronti della coppia marocchina: “S.B. non è un mostro e non aveva lasciato la moglie isolata e fuori dal mondo. Aveva le chiavi di casa, il suo cellulare e la possibilità di sfruttare la rete internet per tenere i contatti con il Marocco”. Sulla ricostruzione degli episodi, in particolare quello terminato con la fuga della donna dall’abitazione coniugale, il legale ha avanzato forti dubbi: “Quel giorno i tecnici della caldaia e il padrone di casa erano venuti per effettuare una riparazione. La signora ha riferito di essere stata presa a pugni e calci nel breve lasso di tempo impiegato da questi ultimi per salire le scale e senza che gli estranei sentissero nulla. È più credibile che S.B. l’avesse soltanto strattonata, come ha raccontato in aula”. Analogo scetticismo riguardo agli altri episodi contestati, cinque in tutto, che “la parte offesa non è stata in grado di collocare nel tempo e di documentare con i riscontri”.
Al termine dell’istruttoria, il giudice Sandro Cavallo ha condannato S.B., incensurato, alla pena di due anni e tre mesi contro i due anni e nove mesi richiesti dall’accusa, obbligandolo inoltre a risarcire il danno civile e al pagamento di una provvisionale di 8500 euro in favore della donna.