Quella di Maria Teresa Novara è una storia vecchia di mezzo secolo, ma è una storia che fa ancora male. “Una storia sbagliata”: così, prendendo spunto da una canzone di De André, la Pro Loco di Canale ha voluto intitolare la serata di venerdì 2 agosto dedicata alla memoria di un caso oggi quasi dimenticato, ma che all’epoca contese le prime pagine alle notizie sulla conquista della Luna.
Un caso che almeno a Canale è ancora una ferita aperta, se è vero che qualcuno ha cercato di evitare che l’iniziativa in memoria di Maria Teresa si tenesse. Ne è nata una polemica tra il sindaco Enrico Faccenda, che ha negato agli organizzatori l’ex chiesa di San Giovanni, e il presidente della Pro Loco Gianni Morello: “Pensavo che dopo cinquant’anni certi tabù fossero caduti, eppure ho trovato tante difficoltà a organizzare questa serata” ha detto davanti al pubblico di oltre un centinaio di persone accorse, comunque, per ascoltare la ricostruzione degli eventi spaventosi che portarono alla morte di una ragazzina di 13 anni. Rapita da casa sua a Villafranca d’Asti, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1968, Maria Teresa verrà cercata senza sosta per 259 giorni. Tra lettere apocrife, sospetti sui familiari e i compaesani, perlustrazioni delle campagne a tappeto e false segnalazioni, il magistrato Mario Bozzola e gli uomini delle forze dell’ordine brancoleranno nel buio per mesi prima dell’atroce verità: la ragazzina viene ritrovata in una cascina nei dintorni di Canale, il 13 agosto 1969. È deceduta da due giorni, e si sarebbe potuta salvare se dopo la morte del suo carceriere Bartolomeo Calleri, affogato nelle acque del Po a Torino, qualcuno che sapeva o sospettava avesse parlato.
Marco Viada, storico dell’Arma dei Carabinieri oggi 84enne, a quel tempo vestiva la divisa e partecipò in prima persona alle indagini. Tutto comincia in un mattino innevato del dicembre astigiano: è lunedì, alle 5,45 Teresa Novara, sua zia, va a svegliare la tredicenne. La investe una ventata di aria gelida. La finestra è aperta, della ragazzina non c’è traccia. La donna esce in preda al panico e prima di svenire fa in tempo a lanciare un urlo tremendo: “L’han rubase la nevuda!”.
Maria Teresa è ospite degli zii di Villafranca solo da poche settimane. Viene dal Bricco Barrano di Cantarana e si è trasferita nell’abitazione della sorella del padre e di suo marito, Pasquino Borgnino, per non dover più percorrere ogni giorno in bicicletta il lungo tragitto tra scuola e casa. I Borgnino gestiscono la tabaccheria del borgo e hanno alloggiato la nipote in una stanza affacciata sul cortile, dove prima custodivano le stecche di sigarette. Per raggiungerla senza irrompere in casa l’unico modo è salire dal ballatoio, a quattro metri d’altezza: i rapitori infatti sono passati di lì, e hanno lasciato soltanto un sacco di ‘serpiera’ (la juta) in camera della ragazza e una scala appoggiata al muro. Quella scala è più bassa di un metro rispetto al piano: come si fa a discenderla trasportando un corpo? È il primo enigma che si trovano di fronte gli investigatori. C’è chi sospetta da subito una messinscena organizzata proprio da lei, magari una fuga d’amore. Ma nella sua stanza non manca nulla, ci sono tutti i vestiti. E poi c’è quel sacco di juta a terra. L’altro sospetto è che i parenti non la raccontino giusta: vengono torchiati tutti per giorni, zii e cugini, senza esito.
“Noi carabinieri eravamo increduli - ricorda Viada - non si riusciva nemmeno a pensare che una bambina potesse essere portata via così, senza un possibile riscatto da chiedere né moventi di vendetta”. Già, perché a Cantarana in casa dei genitori di Maria Teresa, contadini, “c’è abbondanza solo di miseria”, come dirà sconsolato il padre. Certo, gli zii Borgnino in paese sono considerati dei benestanti, ma non così tanto da giustificare un ricatto per denaro. E né gli uni né gli altri hanno inimicizie presenti o passate. Vivono in un Piemonte rurale prossimo alla ‘malora’ raccontata da Fenoglio più che a un benessere consumistico ancora di là da venire: un posto dove si va con il biroccio a comprare le stecche di sigarette una volta al mese, dove a nessuno viene in mente di chiudere a chiave la porta di casa. Per quel Piemonte, un delitto del genere è più di un crimine, è una tragedia che equivale alla perdita dell’innocenza.
Nei giorni successivi si batte ogni palmo di terreno: “Si sono dragati torrenti, vuotati pozzi, scavato qualunque monticello di terra sospetto, perquisiti allevamenti di maiali, stabili in costruzione e finiti, e perfino il cimitero di Villafranca” scriverà il cronista Mario Bariona sulla Stampa Sera il 28 dicembre. A una settimana dalla notte del 16 arriva una lettera firmata da Maria Teresa: viene da Quarto d’Asti, dice soltanto “cara mamma, caro papà, sto bene, state tranquilli. Sono in compagnia di gente che mi farà guadagnare molto denaro”. Il padre è irremovibile nel sostenere che sia un falso, ma per il perito la grafia è autentica. Anche un barista del caffè-ristorante Dogana, a Quarto, giura di aver visto la ragazzina: ha preso un cappuccino e un panino ed è salita su un’auto diretta ad Alessandria.
La pista della fuga d’amore diventa una “probabilità fortissima” per i giornalisti. Lo mettono nero su bianco gli inviati speciali della Stampa Giuliano Marchesini, Carlo Moriondo e Aldo Popaiz: “Che cosa ha orientato le nostre indagini in questo senso? Un fatto semplicissimo. Troppe versioni sul carattere, sul modo di comportarsi di Maria Teresa apparivano esagerate: la si voleva dipingere come una bimba che giocava con le bambole, tutta casa, scuola e chiesa, senza grilli per il capo, senza uno slancio improvviso. Ne risultava un ritratto dissimile da quello di ogni ragazza della sua età”. Circolano allusioni (“per esempio, si è saputo che le piaceva ballare”), si scopre che quella figlia di Maria non visitava l’oratorio delle suore da mesi e che nell’ultimo anno il suo rendimento scolastico era calato. In un suo componimento, poi, si era lanciata in un’ode alla bicicletta “che permette di andare lontano”: un indizio, forse. La presunta prova del nove arriva con il rinvenimento di un biglietto in un quaderno: “caro amore, ci vedremo alla festa di San Martino” aveva scritto l’adolescente, non più bambina, a uno sconosciuto spasimante.
I dubbi si moltiplicano, manca però una conferma. E i giorni passano. Il 31 dicembre, la Stampa Sera apre la prima pagina con un’immagine: “Le foto dell’Apollo 8 svelano la Luna”. In basso, un mesto titolo: “Cadono le speranze per la tredicenne”. Tra gennaio e marzo si susseguono gli avvistamenti: Maria Teresa viene segnalata a Moncalieri, ad Alba, a Chivasso, a Torino, a Genova, a Dronero. Di volta in volta in compagnia di una ragazza più grande, di un giovane, di uno sconosciuto quarantenne. Arriveranno altre due lettere apocrife, e una telefonata misteriosa da Berna rassicura gli zii sul fatto che la giovane è viva: perfino i giornali deplorano le “troppe voci” in circolazione. Sulle colonne della Stampa, intanto, il maestro del noir Giorgio Scerbanenco inizia la sua collaborazione con il quotidiano torinese firmando un racconto ispirato alla vicenda, dal titolo “Maria Teresa e il vendicatore”. Una settimana dopo tornerà a occuparsi del caso ricostruendo “il giallo di Villafranca”.
La realtà è molto più atroce di quella che qualunque romanziere possa descrivere, ma lo si scoprirà solo ai primi di agosto. Aprendo una botola che era diventata un sepolcro.